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Riflessioni sulla didattica a distanza, sull’inclusione e su ciò che servirebbe

Particolare di ragazzo con mano sulla bocca e atteggiamento di ansiaCome insegnante specializzato, non posso non condividere le parole del presidente della FISH Vincenzo Falabella, pronunciate su queste stesse pagine, che fanno ben sperare: «Visto il momento di epocale cambiamento è forse possibile ridisegnare, ripensare, potenziare le soluzioni inclusive, cogliendo le debolezze del sistema che sono divenute evidenti durante l’emergenza coronavirus». C’è però qualcosa che si evidenzia dalla scuola reale che induce in me qualche perplessità.

Innanzitutto desidero fare una riflessione, non breve, connessa con questo drammatico periodo di chiusura del nostro Paese.
Ho registrato che nelle menti delle persone sono emerse non solo passioni quali tristezza, solitudine e paura, ma anche un senso di irrequietezza e di oppressione, che in questi ultimi giorni è sfociato in palesi manifestazioni di rabbia e disillusione che si registrano in tutto il nostro Bel Paese. Certamente queste risposte emotive sono state presenti nei nostri ragazzi delle scuole superiori, che hanno cercato, anche grazie alla didattica a distanza, di mantenere una routine (e noi insegnanti, di sostegno in primis, sappiamo quale immane fatica abbiamo dovuto affrontare e soprattutto con quale sforzo abbiamo dovuto sostenere in termini di processo di adattamento, i nostri studenti con disabilità).
Tenuto conto che le novità sono diventate all’ordine del giorno in questi tre drammatici mesi, ha aiutato ancorarsi a delle sicurezze, rappresentate anche dalla routine dell’orario scolastico (ma molti studenti, anche i più performanti, hanno “sbiellato” e si sono demotivati; contenere la loro deriva è stata molto dura e lo si è potuto-dovuto fare solo vis a vis, corpo a corpo, anche se a distanza. Infatti parecchi studenti bravi e normodotati hanno dato forfait ed è stato possibile tenerli sul “pezzo” e orientarli al compito solo dedicando loro numerose ore, volte a sostenere il loro “crollo” psichico connesso con l’istanza cogente dell’adattarsi a una novità che ha, pure a loro, “sconquassato la vita”: essere cioè in casa e collegati al mondo solo online era vissuto negativamente).
Dover rinunciare a quella parte di scuola che fa la differenza, la socializzazione in presenza, è stata molto dura. Infatti, è proprio questa presenza in vivo che fa sentire i ragazzi importanti, che li fa sentire vivi, che li fa sentire persone umane… la webcam che li collegava con amici e/o con i compagni è stato un miserrimo aiuto volto a compensare una sorta di vuoto interiore che si è creato all’interno di molti studenti-adolescenti.
Noi adulti docenti, e va detto con forza, siamo riusciti in molti casi a supportare, compensare e garantire, con la nostra quotidianità alterata e il nostro orario di lavoro aumentato a dismisura, la preziosa vicinanza educativa: a proposito del vuoto interiore indotto dalla non vicinanza, a me ricorda un po’ la situazione provata tutti i giorni dai nostri studenti con disabilità che vivono sulla loro pelle una situazione di mancanza, sentendosi “diversi” e la subiscono semplicemente poiché non si ha tempo e non si dedicano loro adeguate attenzioni quotidiane. Oggi però posso affermare che grazie alla buona volontà di alcuni adulti-docenti siamo riusciti a evitare che talune situazioni di fragilità emotiva, emerse in concomitanza con il Covid-19, sfociassero in abulia e inerzia motivazionale che si sarebbero potute evolvere in conclamati e profondi disagi emotivi profondi.

Dopo questa semplice premessa non posso esimermi dal chiedermi alcune cose e qui iniziano le mie perplessità.
Perché siamo uno dei pochi Paesi che, a lockdown chiuso, ha chiesto, a studenti e docenti, di stare a casa a fare scuola insieme, sino all’ultimo giorno?
Come mai, vista l’eterogeneità della diffusione del virus, si è imposto a tutte le Regioni e quindi in tutte le scuole una parità di trattamento (siamo per caso ancora alla famosa ingiustizia evidenziata oltre mezzo secolo or sono da don Milani: «Non c’è peggiore ingiustizia che fare parti uguali fra diversi»?).
Da ultimo mi chiedo, come mai si è deciso che gli Esami di Stato della scuola secondaria di secondo grado venissero effettuati in presenza senza sanificazione degli ambienti scolastici? La risposta la si rinviene nel documento del Comitato Tecncio-Scientifico della Protezione Civile, ove si scrive che «il Dirigente scolastico assicurerà una pulizia approfondita, ad opera dei collaboratori scolastici» e successivamente: «La pulizia approfondita con detergente neutro è una misura sufficiente nel contesto scolastico».
Ma come è possibile ciò? Personalmente, per cambiare le quattro gomme della mia automobile, sono stato costretto a sanificare l’ambiente della vettura, ma al contempo scopro che l’ambiente scolastico non merita altrettanta cura. Quindi mi chiedo perché la scuola e i lavoratori che operano al suo interno non meritano altrettanta scrupolosità, tenuto conto che si tratta di un ambiente frequentato da persone…
Come d’incanto le pulizie approfondite e il distanziamento sociale ostacolano la diffusione del virus perché lo ha detto la task force, ma al contempo l’ambiente fisico delle scuole – deteriorato da circa mezzo secolo di incuria e abbandono – può essere semplicemente pulito, ma lasciato così com’è.

Gli interrogativi suindicati fanno insorgere in me qualche perplessità soprattutto in relazione al fatto che è stato dichiarato da più clinici, che lavorano sul campo, che il virus sarebbe «clinicamente inesistente». Ho l’impressione che gli utili tavoli, che vengono coordinati dalle Istituzioni dimentichino di invitare anche gli “scienziati che lavorano sul campo” un po’ come succede allorquando ai tavoli di lavoro indetti intorno alla tematica della disabilità, non si invitano le persone con disabilità, oppure nei Gruppi di Lavoro Operativi (GLO) non si invita lo studente in base al principio di autodeterminazione.
Io credo nella necessità che i vari “pensieri scientifici” abbiano pari dignità intorno al medesimo tavolo di lavoro, poi… la politica decide. Facendo un ulteriore paragone, il mio pensiero va a quanto è successo in questo periodo nelle scuole, un po’ anche per volontà del Ministero, nel corso del quale è stato depauperato il confronto in seno agli Organi Collegiali, mentre il Dirigente Scolastico, con la sua task force, ha preso decisioni che poi in sede collegiale – ad esempio di Collegio Docenti a distanza – si è avuto pochissimo tempo per dibattere. Sono state decisioni, invece, che avrebbero richiesto decisamente un maggiore confronto democratico per ponderare le proposte e adeguare le risposte, rendendole funzionale alle esigenze plurime.
Del resto, non è successa la stessa cosa nel rapporto fra Governo e Parlamento? A me risulta che la nostra sia una Repubblica Parlamentare e che le decisioni legislative vadano prese dai nostri  Parlamentari che operano in nome e per conto del popolo; invece si è perentoriamente deciso, con atti amministrativi quali i Decreti del Presidente del Consiglio, che la perequazione del trattamento di tutti i cittadini di questa Nazione fosse uniformata. È un po’ quello che accade in seno al Consiglio di Classe dei docenti, ove si decide di garantire a tutti gli studenti la medesima offerta formativa, palesando così una profonda ingiustizia soprattutto nei confronti di chi ha bisogno di maggiori attenzioni, di maggiori supporti, di concrete e pragmatiche facilitazioni metodologiche per esprimere appieno le proprie potenzialità, ovvero gli studenti con BES (Bisogni Educativi Speciali), fra i quali quelli con disabilità.
Desidero quindi proseguire in questa comparazione, forse un po’ forzata, fra Governo – che in una situazione speciale ha dovuto decidere per venti Regioni, tutte diverse tra loro – e il Consiglio di Classe che deve programmare e realizzare gli interventi didattico-educativi per venti studenti, tutti diversi e con specifiche esigenze personologiche.
Il Governo, a mio avviso, si è comportato come fanno la maggior parte dei Consigli di Classe alle scuole superiori, offrendo i medesimi contenuti all’intera classe, ignorando i bisogni specifici del singolo soggetto e la personalizzazione del tratto (occorreva regionalizzare alias personalizzare gli interventi?). Pertanto, le palesi dimenticanze fanno sì che le persone (alias Regioni) vadano sullo sfondo, che le esigenze dei cittadini, che variano di Regione in Regione, non vengano registrate (ecco che talvolta fra Governatori e Governo centrale ci sono state tensioni che hanno inciso pesantemente  sulle relazioni interistituzionali, disorientando i cittadini).
Ecco cosa succede ai nostri studenti, a prescindere dai dati che ci provengono dall’osservazione fatta sul campo in aula, che si identifica con l’evidenza clinica in àmbito medico-sanitario (confermata dai dati epidemiologici): si decide, in seno all’organo di governo Consiglio di Classe, che comunque è “giusto” veicolare a tutti gli alunni le lezioni con modalità tradizionale, dimenticandosi innanzitutto dell’insegnante di sostegno (specie se precario) e subito dopo, a cascata, dell’inclusione scolastica.
Ovviamente si spera che le mancate attività inclusive verranno successivamente compensate con un’azione ad personam e non con un’individualizzazione esplicitata con la classe (per inciso: a mio parere occorre integrare gli interventi individualizzati, realizzati in classe, con quelli personalizzati attuati all’esterno della classe).
Avere ignorato quali potessero essere le diverse finalità che potevano perseguire le venti Regioni italiane è un po’ come ignorare le modalità specifiche mediante le quali si possono far raggiungere gli obiettivi formativi, utili alla loro crescita, anche agli alunni con Bisogni Educativi Speciali.

Come docente di sostegno ho costantemente espletato il mio lavoro non sempre in maniera umile specialmente nei confronti dell’organizzazione scolastica, soprattutto allorquando si voleva spianare la strada a sperequazioni e differenziazioni da far subire a chi aveva già un handicap.
Ripuntualizzando quindi che l’inclusione a tutt’oggi è una chimera, nella scuola secondaria di secondo grado (su questo si legga anche un altro mio articolo già pubblicato da questa ottima rivista telematica), ho sostenuto e sostengo che con i nostri  adolescenti-studenti sicuramente l’approccio umile e professionale premia. Con gli studenti della classe ho dialogato costantemente in “chiave socratica”, e seminando anche il dubbio li ho reiteratamente ascoltati e informati, cercando di intercettarne gli stati d’animo più profondi, le istanze intrinseche più pregnanti che si riverberavano sul qui ed ora, sul loro essere a distanza, ma quanto meno presenti. Ho cercato, sebbene online, di tenerli agganciati ad una realtà fattuale concreta, di mantenere elevato il loro livello di concentrazione al servizio del processo di insegnamento-apprendimento.
L’obiettivo dichiarato, e non sempre conquistato online (è sufficiente spegnere la telecamera), è che si presti attenzione al contesto (spazio aula fisico e relazioni), ma nella situazione in cui ci si è trovati a lavorare, si trattava concretamente di un mero spazio virtuale, in cui cercare di attivarsi per garantire almeno un surrogato di relazioni umane.
Nella didattica in presenza l’interazione diretta aveva come scopo quello di prevenire una sorta di corto circuito atto a determinare una risposta attentiva tangenziale e un conseguente allontanamento mentale dal contesto da parte degli studenti (difficilissimo e impegnativo ottenere ciò in  videoconferenza o con una videolezione che dir si voglia. Sì, è proprio così: ho assistito a tante, troppe videoconferenze e a poche lezioni interattive; la modalità di insegnare “vecchia maniera” è stata semplicemente traslata e usata online… altro che didattica inclusiva e attenta alla personalizzazione. Ho cercato di incoraggiare, per quanto possibile a distanza, a continuare a desiderare di esprimere qualche “sogno”, garantendo una relazione educativa simpaticamente dinamica e con valenza empatica nel tentativo di “normalizzare” una situazione che sino all’ultimo giorno di scuola ha rivestito un  carattere di eccezionalità).
Sulla scuola tale emergenza ha scardinato certezze e alterato inveterate consuetudini, a cominciare dalla vituperata campanella che in modo rituale scandiva non solo il tempo scuola, ma comunicava un senso di appartenenza a un luogo comune: l’istituto scolastico. Tale situazione connessa con la didattica a distanza (si protrarrà?) ha letteralmente costretto i docenti tutti a mettersi in discussione innanzitutto come persone.
Personalmente mi sono messo in gioco in tempi brevi, nonostante le condizioni di criticità in cui operavo (ad esempio mi era stato rubato da poco il PC portatile e il mio smartphone risultava datato per poter affrontare le elevate richieste connesse con la didattica a distanza. In ogni caso ero consapevole che desideravo garantire vicinanza e continuità educativa con lunghissime telefonate, chat create con whatsapp…). Nei primi tempi ho fatto, al pari di alcuni miei colleghi, ciò che potevo realisticamente e pragmaticamente, consapevole che, a prescindere dalle condizioni ambientali, importantissime sono anche le risorse che la persona è disposta a mettere a disposizione della realtà contingente, e mi sono quindi attivato, ricordando anche che la partecipazione democratica alla vita della scuola è, a mio avviso, la vera forza di ogni comunità scolastica (sono però  un adulto con le sue facoltà cognitive integre, con una forza propulsiva interiore ancora tale da cercare di reagire al confino in cui eravamo segregati, pur essendo considerato anagraficamente, da “over 55”, come appartenente alla categoria di “lavoratori fragili).

A questo punto, però, mi chiedo come abbiano vissuto le persone appartenenti allo spettro dell’autismo e coloro che vivono una situazione caratterizzata da disabilità complesse questa situazione?
Dando voce, quindi, a chi ha vissuto con estremo disagio psichico la didattica a distanza, faccio esprimere Riccardo, ragazzo ad alto funzionamento cognitivo, che a fronte della richiesta della sua docente di italiano di scrivere quali siano stati i vantaggi e gli svantaggi della didattica a distanza, in modo eloquente e senza incertezza alcuna, ha innanzitutto capovolto l’ordine, parlando prima degli svantaggi. «Gli svantaggi della didattica online – ha scritto – sono che si effettua al pomeriggio e sono stanco, mi annoio, mi sento infastidito con la telecamera accesa, non mi posso muovere liberamente e non capisco tutto come quando sono in classe» (Riccardo frequenta una scuola secondaria che ha deciso di fare lezione a distanza al pomeriggio). E a seguire: «I vantaggi? Non ci sono!»
La scuola ha messo in evidenza, soprattutto in questo periodo, le rughe presenti, fra le cui pieghe si cela l’agognata inclusione tanto dichiarata quanto poco praticata alle superiori.
La scuola non ha saputo evolversi dall’interno, anche mediante un’idonea formazione costante e continua dei docenti, poiché sommersa da novità che provengono dall’esterno che risultano solo buoni propositi: con gli investimenti azzerati e con pochissima formazione offerta ai docenti, come si pensa di porre in essere un processo di cambiamento?  Le risorse umane sono conditio sine qua non per avviare un cambiamento reale. Oggi la scuola, sino all’ultimo giorno di frequenza, si è nascosta dietro il paravento della nuova tecnologia, che è stata utilizzata per permettere agli alunni di collegarsi virtualmente, ai dirigenti di affermare che “abbiamo fatto di tutto ma…”, come ha affermato la Ministra, si è operato apportando conoscenze disciplinari, ovvero “riempiendo gli studenti come imbuti”. Ma si sarebbe potuto fare di più e meglio?

È quasi inutile sottolineare che esistono variegate esperienze didattiche a distanza, che utilizzano le tecnologie nella loro piena potenzialità, ma i docenti non sono pronti, poiché mai sono stati preparati a fare ciò e ridottissimi investimenti economici sono in cantiere rispetto ai bisogni di formazione. A me ricorda un po’ l’“Armata Brancaleone” e la proverbiale frase presente nella lingua italiana che ben si addice ai nostri governanti: «Armiamoci e partite»!
Può una barriera essere trasformata in opportunità? In chiave ICF sì [l’ICF è la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, N.d.R.]. Si sarebbero potuto ridurre le fatiche di tutti, docenti e discenti, mediante la “classe capovolta”, la “didattica aumentata”, ovvero cambiando paradigma? Certo che sì. Di fatto, però, vi è stata una sorta di impasse pedagogico, una difficoltà nel comprendere la fatica generale, che si è riverberata soprattutto sulle famiglie al cui interno erano presenti studenti con Bisogni Educativi Speciali, proseguendo in modo forsennato anche negli ultimi giorni di scuola nel chiedere di sostenere interrogazioni, verifiche, pensando costantemente in termini di prestazione: la logica della performance si è dunque affermata ancora una volta e la logica sottesa è risultata essere sempre la stessa, sia nella didattica in presenza, sia per tutto il periodo della didattica a distanza: da un lato i professori hanno pensato a fare scuola realizzando il programma della materia oggetto di insegnamento, indi a misurare le conoscenze, dall’altro gli studenti hanno pensato al voto da ottenere onde evitare il PAI (Piano di Apprendimento Individuale).
Ma che succede secondo tale ottica che nega l’importanza dell’autoregolazione e della componente “meta” (metacognitiva, metaemotiva…) dell’alunno, ovvero non considera vitale riflettere su ciò che sta succedendo intorno a noi e cosa sta succedendo in noi stessi? Porta immancabilmente i nostri ragazzi, ovvero intere generazioni, a investire su ciò che possono ottenere a brevissimo termine, meglio se nel qui ed ora, riversando la loro attenzione al voto piuttosto che al  piacere del sapere (per fare ciò immancabilmente il docente dev’essere capace di fascinazione e di sollecitare interesse e stimolare motivazioni intrinseche nell’alunno).
Occorre ri-partire dalle persone, dai fondamentali dell’azione didattico-educativa, che è opportuno realizzare valorizzando le narrazioni, il raccontarsi e il condividere non solo conoscenze, ma anche il gusto della scoperta del sapere, da fare insieme.
Non è forse l’ora di dire basta all’appiattimento e al basso profilo personale e professionale? Il docente deve ritornare ad essere un ricercatore e un formatore al contempo, a maggior ragione se insegnante specializzato.
Ci si è chiesti, in questo tragico periodo, come garantire sia l’inclusione che la sicurezza personale, ma di fatto confermo che la didattica a distanza ha evidenziato molte criticità e talvolta è stata  un fallimento, allorquando utilizzata in malo modo con gli studenti con disabilità, soprattutto con coloro che necessitavano di un sostegno specifico e mirato. È la solita vecchia storia: si dà poco a tutti e nel medesimo modo e così ci si mette a posto con la propria coscienza, noncuranti che l’etica dovrebbe guidarci nell’alzare il tiro dell’intervento formativo con la prospettiva di essere d’aiuto all’altro. Tenuto conto che la nostra figura professionale di docenti appartiene all’area delle professioni d’aiuto, necessiterebbe avere a cuore la crescita della persona-studente e non solo le sue performance.
Per l’ennesima volta si è dato per scontato che gli insegnanti sarebbero cambiati, in realtà si sono solo adattati, l’approccio didattico connesso con le lezioni cattedratiche si è protratto con gli incontri a distanza. Si è al contempo scaricato sulle spalle dell’insegnante specializzato di scegliere la migliore strumentazione da usare con le singole disabilità, dando per assodato che gli insegnanti di sostegno continuassero a lavorare in un rapporto di 1:1 mediante la  videolezione (ecco come è stata esportato il processo di integrazione scolastica a distanza).

Ormai da cinque lustri mi occupo delle tematiche “speciali” dell’apprendimento e opero in chiave metodologico-didattica con le varie tecniche possibili, ma a tutt’oggi sento ancora il bisogno e l’esigenza, anche se non è possibile incontrarsi vis a vis, del confronto diretto e ho ben radicato in me il concetto di collegialità agita.
In funzione di ciò, considero necessario arrivare a decisioni condivise, a proporre iniziative che abbiano un lungo respiro, a ricorrere a strategie funzionali, ovvero tali da poter condurre a sistema le singole azioni, sempre in una prospettiva olistica e in funzione di un Progetto di Vita condiviso e soprattutto al servizio della persona-studente con disabilità.
Ritorno però al clima generale, causa anche coronavirus, che ci ha imposto la didattica a distanza, e assisto a una deriva culturale e partecipativa. Emerge silente, ma in progress e talvolta in modo esplosivo, uno stato di tensione relazionale che sottende un potenziale meccanismo di scontro interpersonale dettato anche dal distanziamento, che crea una certa diffidenza l’un con l’altro.
A volte assisto a una sorta di “guerra fredda” che induce un clima ostile fra componenti scolastiche e in seno al corpo docente stesso. Non desidero prendere posizioni nei confronti delle varie forze politiche, ma so per certo che “tutto è politica”; ne consegue che la politica – sia le forze di governo che quelle di opposizione – dovrebbe approfittare dell’occasione per riscattare innanzitutto la sua immagine nei confronti dei Cittadini sovrani.
I nostri rappresentanti, in quanto responsabili dell’atavica arretratezza della nostra scuola e quindi dell’arretramento in ambito culturale che si sta pagando da alcuni decenni, dovrebbero sentire la responsabilità di far decollare il Paese. Se i rappresentanti del popolo non avranno il coraggio, ma soprattutto il desiderio, di riformare profondamente tutta l’area dell’istruzione e dell’educazione, rischieremo solo di enunciare buoni propositi, con buona pace degli alunni fragili e delle loro famiglie, “anello debole” della catena, su cui si scaricherà il peso maggiore dell’irresponsabilità politica in ambito culturale e formativo.

Insegnante specializzato e consigliere di orientamento.

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