Ancora oggi essere madri con disabilità è un tabù, ma con il supporto di strutture sanitarie adeguate e di una comunità che sostiene e accompagna, la strada diventa meno difficile. Ne parliamo con Angelamaria Becorpi, ginecologa che lavora all’Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi di Firenze, ove è responsabile del programma regionale PASS (Percorsi Assistenziali per Soggetti con bisogni Speciali), conosciuta durante l’incontro online intitolato La salute della donna con disabilità. Accesso ai servizi sanitari e cura di sé, organizzato dalla UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) l’8 marzo scorso, sul tema della salute della donna e dell’accessibilità dei servizi ostetrico – ginecologici alle donne con disabilità [se ne legga anche l’ampia presentazione su queste stesse pagine, N.d.R.].
Il citato programma PASS, va ricordato, è presente in dodici presìdi sanitari della Toscana per adeguare l’offerta sanitaria in modo da migliorare i risultati di salute delle persone con disabilità mediante la predisposizione di “adattamenti ragionevoli” ai bisogni del paziente [se ne legga anche nel nostro giornale, N.d.R.]. Nella struttura di Careggi, all’interno di PASS è attivo il Rosa Point, percorso assistenziale di ginecologia e ostetricia rivolto a donne con disabilità motoria e sensoriale, progettato per rispondere ai bisogni nell’àmbito della medicina di genere. Esso gestisce i percorsi diagnostico-terapeutici riguardo alle problematiche ostetrico-ginecologiche, alla prevenzione oncologica, al tumore della mammella, ai tumori dell’apparato genitale femminile, alla gravidanza, alla menopausa e alla procreazione medicalmente assistita.
«Ho iniziato a occuparmi di disabilità di tipo intellettivo nel 2007 – esordisce Becorpi -, grazie al contatto con un’Associazione che faceva riferimento alla nostra struttura per le visite e gli esami ginecologici. I volontari del Servizio ASDI (Assistenza Sanitaria Disabilità Intellettiva) sono stati i primi facilitatori, quel tramite tra le famiglie, i caregiver e noi operatori sanitari, indispensabile per agevolare la presa in carico di persone con disabilità intellettive. Da lì ho continuato a occuparmi di questo tipo di condizioni. Quando abbiamo aperto il Rosa Point con l’acquisizione dei lettini ginecologici elettrici per le pazienti con disabilità motorie, ho imparato prima di tutto da loro, le pazienti: inizialmente la mia è stata davvero una formazione sul campo».
Da dove può partire una donna con disabilità che desidera un figlio o che scopre di essere incinta?
«Le strutture che prendono in carico persone con disabilità non sono molto diffuse in Italia. Il consiglio che posso dare a una donna con disabilità motoria è quello di rivolgersi a una struttura ospedaliera, ospedaliero-universitaria, o secondo le diverse realtà territoriali, al proprio consultorio o al proprio ginecologo, per avere indicazioni sulle opportunità a disposizione per trovare figure mediche e sanitarie che prendano in cura pazienti con patologie e problematiche diverse, che possano seguirle adeguatamente da un punto di vista sanitario in una struttura la “più adatta possibile” in senso ambientale e di preparazione professionale.
Le Associazioni del settore sono un punto di riferimento per l’informazione in tal senso, essendo fra l’altro in Toscana coinvolte in programmi quali PASS e Rosa Point.
Il Rosa Point è un servizio al quale si rivolgono pazienti con disabilità che non vengono seguite in altri centri. Per altro nel nostro dipartimento c’è una particolare attenzione, mediante un servizio dedicato, alle gravidanze a rischio, condizione spesso legata a situazioni di disabilità. Lavoriamo in rete con altri medici specialisti, ad esempio con i neurologi, con gli operatori dell’Unità Spinale, nelle varie fasi della gravidanza. È un tipo di percorso multidisciplinare che dà tranquillità alla donna.
PASS è un progetto che lavora sulle barriere visibili e su quelle invisibili, con un’attenzione specifica alla formazione del personale sanitario e amministrativo. Attraverso questo programma puntiamo molto sulla formazione dei colleghi e in generale di tutti gli operatori sanitari. È una formazione che comprende molti aspetti, dalla comunicazione con i pazienti all’assistenza, partendo dai diritti delle persone con disabilità. Dallo scorso mese di marzo è attivo un modulo specifico sulla ginecologia, dedicato a ginecologi, ostetriche e medici specializzandi. Il nostro obiettivo è lavorare con le nuove generazioni, perciò cerchiamo di coinvolgere le scuole di specializzazione, in modo da far crescere gli operatori nella sensibilizzazione e nella formazione nei confronti del paziente con bisogni speciali. Nella nostra attività è essenziale il rapporto di collaborazione con le Associazioni del settore, che rappresentano un anello indispensabile con le persone con disabilità e con i loro bisogni».
Quale tipo di accompagnamento/percorsi di maternità attuate nella vostra struttura?
«Nel nostro Dipartimento Materno-Infantile sono previsti percorsi di accompagnamento alla nascita per le pazienti, al di là della disabilità. Nel caso di condizioni particolari, ci attiviamo con attenzioni specifiche in particolare da parte del team delle ostetriche dedicate».
Quali aspetti è importante tenere presenti in questi casi?
«Trattandosi di gravidanze che possono presentare maggiori rischi, l’attenzione è più specifica: è indispensabile valutare precocemente le condizioni mediche, le patologie associate, le eventuali condizioni di rischio materno-fetale, le modalità di espletamento del parto con il servizio dedicato alle gravidanze a rischio».
Maternità e disabilità: è un binomio possibile?
«Sì, è possibile, offrendo condizioni di sicurezza da un punto di vista di assistenza sanitaria. Il medico dev’essere preparato e la struttura adeguata alla presa in carico. Ricordiamoci che l’ONU nell’articolo 25 (Salute) della Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità, ribadisce il diritto consapevole alla salute sessuale e riproduttiva, attuabile mediante l’assistenza adeguata del personale dedicato e delle strutture.
Essere madre è un diritto di ogni donna, anche se parlare di maternità nella donna con disabilità rimane purtroppo ancora, soprattutto in Italia, una fonte di resistenze che noi operatori sanitari abbiamo il dovere di contribuire ad abbattere».
C’è la tendenza a pensare che se una donna ha difficoltà a prendersi cura di se stessa, non riuscirà a prendersi cura di un bambino o di una bambina. Che ne pensa?
«Questa tendenza a pensare che se una donna ha difficoltà ad occuparsi di se stessa, non potrà riuscirci con il figlio/figlia può determinare purtroppo, oltreché resistenze sociali da parte della comunità, che hanno un impatto psicologico fortissimo sul benessere della donna, anche una difficoltà a livello ambientale e strutturale, perché sappiamo quanto i pregiudizi ostacolino, anche sul piano concreto, la possibilità di creare le condizioni più opportune per accogliere le donne con disabilità che scelgono di intraprendere questo percorso.
È ovvio che nel caso di una donna con limitazioni motorie esistano maggiori difficoltà nella gestione personale, ma la mia esperienza di tanti anni con la disabilità mi ha insegnato che le donne vanno ben al di là di quanto è pensabile. Mi trovo davanti a pazienti che hanno una forza che non ti immagini nemmeno, che hanno capacità organizzative e di gestione delle difficoltà impensabili secondo i criteri di chi è lontano da queste realtà. La donna con disabilità ha tantissime risorse e conosce i suoi limiti, è consapevole della necessità di essere supportata, ma questo non vuol dire affatto che non possa occuparsi in maniera esemplare del figlio e che quindi non sia in grado di esercitare il suo diritto di essere madre. In questo suo percorso è sicuramente importante chi le sta accanto, il partner, la famiglia, la rete sociale e sanitaria, le Associazioni dedicate».
Come rispettare il diritto di scelta e di autodeterminazione della donna con disabilità?
«I diritti della persona devono essere rispettati a priori: questo passa attraverso l’informazione e la sensibilizzazione in generale, e in particolare del personale sanitario, oltreché attraverso la presenza di strutture adeguate. In questi percorsi è fondamentale fare presente le possibili conseguenze ed evoluzioni delle scelte personali. Il recente Secondo Manifesto sui diritti delle Donne e delle Ragazze con Disabilità nell’Unione Europea sottolinea peraltro l’importanza dell’informazione adeguata da parte nostra come operatori e della scelta consapevole da parte della donna».
Quale formazione specifica è necessaria per chi, come lei, decide di lavorare in àmbito di disabilità?
«Quello che nel nostro cammino professionale ci ha fatto dedicare come operatori a questo tipo di contesto è sicuramente una disposizione che viene da dentro, che ci fa sentire una specifica vicinanza con certe condizioni, bisogni e diritti. Ma bisogna andare oltre: è fondamentale, cioè, formare e sensibilizzare su questi temi a partire dal percorso universitario e dalle scuole di specializzazione, per imparare a metterci adeguatamente in relazione con il paziente, con la famiglia e con i caregiver. Quest’opera di formazione ha una funzione di tipo maieutico, cioè aiuta a tirare fuori quelle capacità, risorse e sensibilità che i sanitari hanno dentro, preparando al dialogo, all’ascolto empatico, all’assistenza. In tutti questi anni ho capito quanto la formazione possa far cambiare noi operatori e quanto ci sia da ricevere in questo nostro rapporto con la paziente con bisogni speciali, in termini di partecipazione alla vita e di arricchimento umano».
Un proverbio africano recita: «Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio». Nella sua esperienza, quale ruolo ha la famiglia (e la comunità) in questi percorsi di maternità?
«Questo proverbio mette in luce quanto sia importante, in generale per un essere umano e, ancor di più, per una mamma e il suo bambino, sentirsi parte di una comunità, di una rete che faccia da sostegno, accompagnando e partecipando al percorso di gestazione e di genitorialità della donna, come anche allo sviluppo del bambino, che non dovrebbe essere solo figlio di quella mamma e di quel papà, ma figlio dell’intera comunità. Non è un caso che il proverbio sia africano e che in Occidente, vivendo in una società per lo più individualista, sia più faticoso pensarla e viverla in questi termini. Si potrebbe provare a cambiare rotta, a partire per esempio dalla formazione di figure preparate e realtà sul territorio che facciano da “nido” prima e da “ali” poi, nel percorso di nascita di una mamma e di nascita e crescita del suo bambino. Delle figure già esistono in Italia, pensiamo per esempio alla doula, figura di sostegno che si occupa del benessere psicofisico della donna e della famiglia dalla gravidanza fino al primo anno di vita: ecco, a partire da qui, bisognerebbe andare oltre e rendere innanzitutto questa figura non un privilegio per pochi, ma una risorsa per tutti, per poi lavorare sul territorio, magari attraverso le Associazioni e il sostegno delle Istituzioni, alla formulazione e alla realizzazione di spazi in cui la donna possa sentire di poter condividere con altre donne il suo percorso di maternità e genitorialità». (Alessandra Piva)
La presente intervista è già apparsa nel sito della UILDM Nazionale (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) e viene qui ripresa, con alcuni riadattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.