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Questionari così non fanno bene né ai caregiver né alle persone con disabilità

Giovane con disabilità insieme alla caregiver familiare

Una caregiver familiare insieme al figlio con grave disabilità

A cercare di tirare le fila del dibattito che ha preso posto in questi giorni anche sulle nostre pagine, rispetto al contestato questionario inviato ai caregiver familiari dai Comuni di Roma e di Nettuno (si vedano i nostri contributi nella colonnina a destra del presente testo), è Simona Lancioni, cui diamo ben volentieri spazio.

Si compone di due scale di valutazione il questionario di rilevazione utilizzato dal Comune di Roma e da quello di Nettuno (Città Metropolitana di Roma), rivolto ai/alle caregiver – ovvero le persone che assistono in modo continuativo, significativo e gratuito i familiari con disabilità grave o le persone anziane non autosufficienti –, e che, in seguito a forti proteste, è stato sospeso.
Nello specifico il questionario indaga il livello di stress accumulato dai/dalle caregiver in relazione all’attività di assistenza. A tal proposito i media hanno utilizzato espressioni come «domande choc» («Today.it»), «domande irricevibili» («Next»), «questionario della vergogna» («La Notizia»).
Ad insorgere sono state soprattutto le organizzazioni di persone con disabilità che hanno trovato offensive le modalità con cui sono state poste alcune domande. La FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), ha parlato ad esempio di «questionari dei pregiudizi».
Queste alcune delle domande incriminate: «Da zero a quattro quanto ti vergogni del tuo familiare?», «Quanto risentimento provi nei suoi confronti?», «Senti che ti stai perdendo vita?». Poiché la versione del questionario divulgata è in formato immagine, e dunque è inaccessibile ai software comunemente utilizzati da persone con disabilità visive, ne descriviamo i contenuti a questo link.

Dopo le proteste, dunque, l’Amministrazione Comunale di Nettuno ha chiarito che «il questionario sui caregiver inserito nelle linee guida regionali ed utilizzato da altri Comuni della regione nonché in altre regioni d’Italia, è stato recepito dal distretto socio sanitario territoriale prima di essere sottoposto alle famiglie. Il questionario è uno strumento scientifico indicato da una delibera di giunta regionale tra i possibili strumenti da utilizzare da parte dei Comuni», per cogliere, tramite un’autovalutazione, la percezione soggettiva dello stress dei/delle caregiver familiari. «L’obiettivo – spiegano dal Comune – è quello di individuare idonee misure di sostegno per le famiglie interessate».

Sulla questione ha preso la parola anche il Gruppo Caregiver Familiari Comma 255, secondo il quale «lo scandalo non è la somministrazione del questionario, né i quesiti che riporta, né il linguaggio: se qualcuno ritiene un’offesa parlare di sentimenti come disagio o vergogna nella condizione di caregiver familiari è ben lontano dal nostro mondo e dalla nostra condizione. Una vita obbligata e non scelta, come quella del caregiver familiare, vincolata in ogni momento della giornata, comporta nel proprio percorso anche il riconoscimento ed il superamento di questi sentimenti naturalmente umani, imposti dalla nostra società performante e per nulla attenta all’altro, né inclusiva». Secondo il Gruppo il vero motivo per cui bisognerebbe vergognarsi è il fatto che esiste un esercito di caregiver familiari – silenzioso, disilluso e allo stremo delle forzeche ancora attendono di veder riconosciuta la loro dignità di cittadini e cittadine.

Sul quotidiano «Domani», la giornalista Selvaggia Lucarelli, anch’ella caregiver familiare con una madre in una residenza sanitaria assistita e un padre di 88 anni gravemente malato che vive in casa con lei, ha preso una posizione fuori dal coro, ed osserva che «quelle domande sono lucide e modellate sull’esperienza e l’ascolto, l’indignazione di questi giorni è invece il risultato di scarsa conoscenza del ruolo del caregiver e del fardello che porta sulle spalle. Non erano brutali le domande del questionario, è brutale il voler rimuovere con la retorica dell’assistenza come missione, del sacrificio come slancio appagante, della malattia come benedizione una verità inconfutabile: assistere quotidianamente una persona non autosufficiente logora e scarnifica, divora tempo per se stessi, inasprisce i rapporti con gli altri familiari, fa sentire inadeguati e onnipotenti, martiri e assassini in un’alternanza che destabilizza, allontana il futuro e sfianca, in un lotta intestina, perenne, tra l’amore e il risentimento».

Per farsi un’idea il più oggettiva possibile della vicenda è bene chiarire che, come già accennato, il questionario proposto dai Comuni impiega due scale di misurazione prodotte in ambito geriatrico nel 1980 e nel 1989, ben prima che, nel 2001, fosse approvato l’ICF (la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute) e che, nel 2006, fosse promulgata la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (ratificata dall’Italia con la Legge 18/09), ovvero i due strumenti che hanno sancito il superamento del modello medico di disabilità e introdotto il modello bio-psico-sociale. Una questione tutt’altro che secondaria, visto che il modello medico considera la disabilità come una conseguenza diretta della menomazione, mentre per il secondo essa scaturisce dall’interazione tra durature menomazioni (fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali) e le barriere di diversa natura che possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione alla società delle persone con disabilità in condizione di uguaglianza con gli altri cittadini e cittadine. Insomma, la disabilità ha cessato di essere una faccenda individuale e privata, per divenire responsabilità delle società che nel loro costituirsi ed organizzarsi non hanno considerato la presenza delle persone che ne sono interessate.
Nello specifico, le scale di misurazione utilizzate nel questionario sono il Caregiver Burden Inventory (CBI – letteralmente “Inventario del carico del caregiver”) di Mark Novak e Carol Guest del 1989, e il Zarit Burden Inventory (ZBI – “Inventario del carico di Zarit”), elaborato da Steven H. Zarit, Karen E. Reever, Julie Bach-Peterson nel 1980.
Realizzate negli Anni Ottanta, quando il modello medico di disabilità era l’unico disponibile, tutte le affermazioni contenute nel questionario esprimono una visione tragica della disabilità, e anche l’idea che essa sia una questione individuale conseguente alla menomazione. Una visione abilista, diremmo oggi, sebbene non sia corretto valutare le cose del passato con gli strumenti dell’epoca attuale.

Ma il dissenso che il questionario ha suscitato può essere inteso come l’incapacità di ascoltare le reali esigenze e le sofferenze del caregiver? Che i/le caregiver siano inascoltati, che versino spesso in condizioni drammatiche, che non abbiano tutele giuridiche, che anche il processo di riconoscimento della loro figura si trascini da anni senza particolari progressi, è purtroppo la dolorosa realtà. Tuttavia, quello che non sembra sufficientemente chiaro a chi quelle domande le ha accolte con favore è che esse, proprio perché ispirate dal modello medico, non vanno nella direzione del riconoscimento dei diritti del caregiver.
Tanto per essere ancora più chiari: nessun quesito presente nei questionari rileva la responsabilità delle Istituzioni nel non avere ancora provveduto a garantire misure di tutela per il caregiver familiare, e nel non garantire servizi di assistenza adeguata e sufficiente alle persone con disabilità. In tutti i quesiti, infatti, la persona con disabilità è presentata come un peso per chi si prende cura di lei, e non come un soggetto i cui diritti umani sono costantemente violati da uno Stato assente. Quella formulazione non fa altro che rafforzare lo stigma nei confronti delle persone con disabilità e, per assimilazione, anche di chi si prende cura di loro.

Un errore simile si sarebbe potuto evitare coinvolgendo le Associazioni e i Gruppi di persone con disabilità e di caregiver. Come giustamente ha osservato Marco Rasconi, presidente della UILDM Nazionale (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) su «Vita»: «Perché un’Amministrazione nel 2022 deve atteggiarsi a pioniera, facendo da sola un questionario su questi temi, senza coinvolgere le nostre realtà? Dopo tutti questi anni si può apprezzare maggiormente il fatto che comunque c’è stato un segnale di attenzione ad un argomento così delicato: ma se il risultato è goffo, io ho il dovere di dire che questa cosa è stata fatta male e con almeno dieci anni di ritardo rispetto al linguaggio e alla concezione della disabilità. Coinvolgeteci prima, l’appello è sempre questo. Perché siamo anche stanchi di fare quelli che, a cose fatte, sono costretti a dire che le cose non vanno bene: ci costringete a diventare antipatici, a passare per quelli a cui non va mai bene niente. Non è così. La verità è che abbiamo competenze, esperienza, una riflessione lunga anni… e le vogliamo mettere a disposizione perché insieme possiamo fare le cose bene sin da subito, in modo che sia “buona la prima”».

Trovare modi e luoghi nei quali i/le caregiver, fuori da ogni retorica e in contesti non giudicanti, possano esprimere liberamente le proprie emozioni e i propri sentimenti, le difficoltà e le gratificazioni (ci sono anche queste), dovrebbe essere una priorità. È però altrettanto importante che in questa narrazione i diritti dei/delle caregiver non siano presentati in contrapposizione a quelli delle persone con disabilità. Il “problema” non sono le esigenze di cura delle persone con disabilità (il questionario ci spinge a pensare questo), ma la mancanza di politiche pubbliche volte a tutelare sia i diritti di queste ultime che quelli dei/delle caregiver.

Responsabile di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), nel cui sito il presente contributo è già apparso. Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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