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Api e persone con disabilità, un’alleanza con tante prospettive

Adam Santana, "Busy Bee" ("Ape indaffarata"), 2019

Adam Santana, “Busy Bee” (“Ape indaffarata”), 2019

«Se le api scomparissero dalla terra, per l’uomo non resterebbero che quattro anni di vita»: questa frase, erroneamente attribuita ad Albert Einstein, viene citata nei dibattiti sulla salvaguardia ambientale, i cambiamenti climatici e la crisi alimentare cui andremo incontro se non invertiremo la rotta dei comportamenti verso il pianeta che ci ospita.
La citazione è sbagliata, ma il messaggio è reale. Le api, infatti, sono preziosissime, se è vero che quasi il 90% delle piante selvatiche ha bisogno degli animali impollinatori per completare la riproduzione, piante fondamentali per gli ecosistemi e la diversità biologica alla base dell’esistenza degli esseri viventi. Non solo, ne è dipendente oltre il 75% delle colture agrarie come cereali, frutta e verdura essenziali per l’alimentazione umana. Se pensiamo che il volume di raccolti che beneficiano degli impollinatori è triplicato negli ultimi cinquant’anni, si comprende cosa accadrebbe se scomparissero le api e le decine di altre migliaia di specie, tra cui alcuni mammiferi, che portano il dolce nettare di fiore in fiore. Questi insetti meritano tutela anche perché forniscono importanti e apprezzati prodotti come il miele e la cera, inoltre sono integrati nelle tradizioni locali e supportano un settore dell’economia, l’apicoltura, che in alcune zone è fonte di reddito per le famiglie.
Questo può sembrare un tema “lontano” dalla disabilità, e invece sono sempre più numerose le iniziative che vedono le api e le persone con disabilità alleati che si donano qualcosa reciprocamente.

François Huber, il naturalista non vedente che amava le api
Tutto ebbe inizio nella seconda metà del Settecento e porta il nome dell’entomologo svizzero François Huber. Vissuto fra il 1750 e il 1831, Huber fu un uomo non vedente capace di rivoluzionare le conoscenze sulle api, e di conseguenza l’apicoltura, con metodo scientifico, umiltà e attenta osservazione.
Per capire come una persona priva della vista senza le odierne tecnologie sia riuscita a surclassare le teorie di naturalisti di fama e dotati di tutti i cinque sensi funzionanti, bisogna conoscere la vita e il carattere di Huber. Aveva soltanto 15 anni quando i suoi occhi cominciarono ad avere dei problemi; i medici consultati dai genitori non diedero grandi speranze, ma suggerirono di far trascorrere al ragazzo un periodo in campagna, dedicandosi ad attività all’aria aperta. Si trasferì così in una cittadina a nord di Parigi, il contatto con la natura gli era congeniale, essendo appassionato di scienze, e stare in movimento non era una fatica per un giovanotto pieno di interessi. Lo stato generale di salute migliorò e tuttavia ben presto lo informarono che la cecità sarebbe diventata totale e permanente.
La batosta avuta con la prognosi venne attenuata dalla presenza di Marie Aimée Lullin, un’amica d’infanzia divenuta fidanzata contro il parere del padre di lei, spaventato all’idea che la figlia si accompagnasse ad un ragazzo non vedente, in teoria privo di prospettive. Marie attese la maggiore età di allora, 25 anni, per sposare il suo François che ormai distingueva soltanto luci ed ombre, ma tanto ancora gli bastava per interagire con le persone e il mondo circostante. La moglie non lo lasciava mai, era segretaria e lettrice per il compagno, osservava per lui e riferiva quanto aveva visto, mentre la famiglia si allargava e insieme crescevano i tre figli, Jean, Marie Anne e Pierre. Fu una solida colonna per François, un uomo che non si lamentava mai della sua condizione, preferendo altri argomenti di conversazione quali la poesia, la musica e ovviamente la natura.

Françpos Huber

Una raffigurazione del naturalista svizzero François Huber, che venne chiamato anche “l’osservatore cieco”

Pur non potendo ammirare il panorama con gli occhi, non rinunciò alle passeggiate in autonomia nella sua proprietà. Lungo i sentieri che l’attraversavano, infatti, fece stendere alcune corde sulle quali di tanto in tanto erano presenti dei nodi che gli consentivano di capire dove si trovava. Un approccio alla disabilità alquanto moderno, come notò l’amico Augustine de Candolle che scrisse: «I giovani devono imparare da lui l’esempio del valore della determinazione risoluta in direzione della massima concentrazione nel lavoro, e specialmente per coloro che sono soggetti alla sua stessa sfortuna che non si scoraggino per via della propria condizione ma che imitino la sua ammirabile filosofia».
Huber ara a suo agio nella vita e con gli altri, così a suo agio che rifiutò un intervento agli occhi che gli avrebbe fatto recuperare parte della vista; ormai, infatti, aveva acquisito un equilibrio che non voleva rischiare di perdere. Sagace e perseverante, capì che alcune delle nozioni dell’epoca in merito alle api erano scorrette, ad esempio la credenza che l’ape regina in realtà fosse un re. Fu uno dei primi a scoprire l’esistenza dello “spazio d’ape”, ovvero il fatto che se le api hanno a disposizione uno spazio più largo di nove millimetri e mezzo, lo riempiono di cera poi difficile da rimuovere e quindi gli apicoltori devono mantenere i favi ad una distanza inferiore, per pulirli e ispezionarli meglio (il favo è un raggruppamento di celle esagonali a base di cera che le api costruiscono nel loro nido per contenere le larve e per immagazzinare miele e polline).
Ma come condurre esperimenti e verificare queste e altre ipotesi letteralmente al buio? Oltre alla moglie, arrivò l’assistente François Burnens, un ragazzo di umili origini assunto inizialmente come domestico, ma il cui entusiasmo nella ricerca, l’intelligenza e l’abilità accanto agli alveari resero un perfetto aiutante i cui occhi facevano le veci di quelli di Huber. Collaborarono per una decina d’anni e il naturalista non mancò mai di sottolineare l’indispensabile supporto del giovane: «A causa di una serie di sfortunati incidenti, sono diventato cieco nella mia prima giovinezza; ma amavo le scienze, e non ne perdevo il gusto perdendo l’organo della vista. Mi sono fatto leggere le migliori opere di fisica e storia naturale: il mio lettore era un servo (François Burnens nato nel Pays de Vaud) che era particolarmente interessato a tutto ciò che mi leggeva».
C’era per altro un rovescio della medaglia: la comunità scientifica ufficiale avrebbe potuto accogliere con scetticismo le pubblicazioni di un entomologo cieco portate avanti da un servo contadino privo di cultura. Per questo Huber era rigoroso e maniacale nel ripetere gli esperimenti. Ogni risultato veniva controllato più volte, perché per venire preso sul serio il suo lavoro doveva essere due volte più approfondito di quello degli altri studiosi. Non cercava conferme alle sue convinzioni, anzi, le guardava da diversi punti di vista per distruggerle e soltanto quando si confermavano esatte dopo esperimenti in diverse condizioni le rendeva pubbliche. I colleghi furono sorpresi per questo approccio severo e al contempo brillante nel modo di superare le difficoltà, unito alle pittoresche descrizioni finali: leggendole pareva di stare accanto a lui mentre lavorava con le api.
La serietà e l’accuratezza di Huber abbatterono i pregiudizi, venne ammesso in molte prestigiose Accademie d’Europa, tra cui l’Accademia delle Scienze di Parigi. Negli ultimi anni si dedicò con passione all’insegnamento, gli allievi erano affezionati ed entusiasti nel seguire le sue mai banali lezioni. Morì tra le braccia della figlia a Losanna, serenamente com’era vissuto, il 22 dicembre 1831, aveva 81 anni. Si chiama come lui una specie di alberi del Brasile, Huberia laurina, così battezzata in segno di gratitudine, e alla moglie Marie nel 1991 venne dedicato un cratere di Venere.

Andrea Licari

Andrea Licari è quasi certamente l’apicoltore con disabilità più noto del nostro Paese

Attrezzature ed esperienze all’insegna dell’inclusione
Non è da escludere che la mancanza della vista sia stato un fattore determinante per il successo delle ricerche di François Huber. In altre parole, non essere “distratto” da quanto gli trasmettevano gli occhi, ha consentito alla sua mente di allargare la visione d’insieme e di concentrarsi su particolari fino ad allora considerati secondari. L’entomologo svizzero, tuttavia, è poco conosciuto nel suo Paese e anche tra gli apicoltori non è una figura citata spesso, se non per un’invenzione che porta il suo nome: l’arnia Huber.
Detta anche “arnia a libro”, la progettò nel 1792 per osservare l’attività delle api senza disturbarle troppo. Come suggerisce il nome, si può “sfogliare” e gli insetti si mostrano in ogni “pagina”; il vantaggio evidente per le persone con disabilità fisiche è che non è necessario alcuno sforzo per il sollevamento dei telai, basta posizionare l’arnia ad un’altezza giusta. Lo stesso vantaggio in termini di maneggevolezza si può ottenere utilizzando l’arnia top bar che si sviluppa su un piano orizzontale e presenta sullo stesso livello sia il nido che il melario, il tutto contenuto in telai più leggeri di quelli tradizionali [il melario è una cassetta senza fondo né coperchio, quadrata o rettangolare, che si pone dentro l’arnia ed è destinata a contenere i favi in cui le api depositano il miele, N.d.A]. È quindi possibile lavorare da seduti, risultato che si ottiene anche modificando una delle arnie più diffuse per l’apicoltura da produzione, la dadant-blatt.
Curiosando su internet si trovano tutorial che spiegano come applicando alcune flange di rinforzo e un’intelaiatura che consente di inclinare l’arnia all’altezza desiderata, con una spesa minima anche un appassionato impossibilitato a stare in piedi, purché abbia un buon uso delle braccia, può cimentarsi in questa attività. E del resto l’accessibilità dell’apicoltura è un tema in larga parte inesplorato: in linea di massima si può dire che non esistono soluzioni univoche, e che quando si parla di disabilità, come sempre, ogni persona deve ricorrere a soluzioni dedicate in base a ciò che riesce a fare. Non va poi nemmeno dimenticato che, oltre alle innumerevoli disabilità fisiche, esistono quelle sensoriali e cognitive che hanno bisogno di ancora differenti adattamenti.

Il web è una miniera di informazioni per chi vuole avvicinarsi a questo settore, ed è proprio in rete che è cominciata l’avventura di quello che probabilmente è il più famoso apicoltore con disabilità d’Italia, Andrea Licari.
Licari si è avvicinato a questo mondo “grazie” al veleno che questi insetti producono. Il veleno d’ape, infatti, è conosciuto fin dall’antichità per le proprietà benefiche sulla circolazione sanguigna, il potere antinfiammatorio e antidolorifico. Lo utilizzavano per scopi “terapeutici” in Egitto e nell’antica Grecia, da millenni è uno dei rimedi della medicina tradizionale cinese per la cura dell’artrite e prima della Grande Guerra il medico sloveno Filip Terč lo impiegava per i reumatismi e altre condizioni di dolore. La comunità scientifica ha scoperto che in un milligrammo e mezzo di veleno sono contenuti 78 principi attivi.
Andrea, quarantaquattrenne di Marsala (Trapani), ha cominciato a studiarlo circa quattordici anni fa, quando gli è stata diagnosticata la sclerosi multipla, e l’ha sperimentato su di sé nel tentativo di alleviare le conseguenze della propria patologia. Una passione nata a causa della malattia, dunque, è diventata un interesse spassionato per le api e, in ultimo, un lavoro. Licari, infatti, è diventato un apicoltore, che sulla sua sedia a rotelle gestisce e cura con successo dieci alveari; inoltre è diventato esperto della specie autoctona di ape nera sicula ed è un divulgatore dei segreti delle arnie. Ora sta coltivando un nuovo progetto: realizzare un apiario didattico socio-inclusivo senza barriere, per coinvolgere altre persone con disabilità.

Street artist Louis Masai Michel

Una delle opere dipinte in Inghilterra dallo street artist Louis Masai Michel, per sensibilizzare sulla sindrome dello spopolamento degli alveari

È vero che le api possono far paura, bisogna conoscerle e imparare a “maneggiarle” con cautela, ma è altrettanto evidente che osservarle mentre lavorano e condurre alveari sono attività che favoriscono il buonumore e la serenità, quindi possono diventare un nuovo modello di “terapia con gli animali”. Andrea sta portando avanti l’idea in collaborazione con l’ANFFAS di Marsala (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale), con la quale ha individuato alcuni luoghi idonei disponibili in comodato d’uso gratuito. Adesso si tratta di reperire i fondi per creare percorsi accessibili e un laboratorio senza barriere dotato di attrezzature e strumenti adatti affinché gli apicoltori con disabilità possano operare in sicurezza e completa autonomia. Non avendo ancora ricevuto sostegni economici concreti, le dimensioni del progetto sono da definire; nel frattempo è stata creata un’entità giuridica senza scopo di lucro, Bio Passioni Società Cooperativa Agricola Sociale, e sono iniziati dei corsi teorici in attesa di fare esperienza dal vivo.

Le opportunità educative, didattiche e sociali dell’apicoltura sono anche l’oggetto di un’iniziativa partita nel 2010 a Bracciano (Roma). Si tratta del progetto Apiabili, voluto da un gruppo di enti impegnati in ambito agricolo e ambientale (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Regioni Lazio e Toscana, Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura del Lazio), con il fondamentale apporto dell’AAIS (Associazione per l’Assistenza e Integrazione Sociale), un’organizzazione che da oltre quarant’anni si occupa di persone adulte con disabilità.
Presso il Centro Sociale Polifunzionale dell’Associazione-Fattoria Sociale Sabrina Casaccia di Castel Giuliano, un appezzamento di circa quattro ettari di terreno in cui sono stati predisposti un apiario didattico e un laboratorio di smielatura, dodici anni fa una decina di ragazzi con diverse disabilità hanno iniziato ad acquisire le competenze tecniche necessarie per gestire un apiario.
La bellezza di questo progetto sta nell’integrazione con il territorio e il contributo che offre alla salvaguardia della natura. Fin dal principio, infatti, si è pensato di organizzare delle visite guidate con gli studenti della zona, per insegnare il ruolo delle api nell’ecosistema e sensibilizzare sulle problematiche legate ai cambiamenti climatici. Ultimi in ordine di tempo, alcuni mesi fa sono stati gli alunni dell’Istituto Salvo D’Acquisto di Bracciano a vivere questa esperienza didattica all’aperto: accompagnatori e docenti sono stati i ragazzi con disabilità che lavorano nella fattoria. Infatti, dopo un corso di formazione che ha coinvolto anche gli operatori sociali che li seguono, sono diventati loro i “ciceroni” di Apiabili, parte attiva che aiuta l’ambiente e mette in contatto le nuove generazioni con la disabilità, imparando a vederla come parte integrante della società.
Oltre a tutto ciò, il progetto ha anche lo scopo di monitorare il fenomeno della moria delle api e per questo si sta creando un’arnia tecnologica e controllata che permette agli apicoltori di controllarne in ogni momento le condizioni interne.

Api

«Se osserviamo le api nella vita in alveare – scrive Stefania Delendati – possiamo imparare da questi piccoli insetti neri e gialli un modello di partecipazione comunitaria alla vita sociale, dove ognuno, in base alle proprie qualità, svolge un compito ben preciso per il benessere di tutti. Oltre a preservare l’ambiente, esse insegnano dunque il valore della collaborazione e, insieme alle api nei progetti che abbiamo raccontato, impariamo l’idea della “diversità” come patrimonio»

Quello laziale è un esempio ben riuscito di socialità all’insegna della cooperazione, come quello avviato ad Arcore, in provincia di Monza-Brianza. Lo racconta Giovanni Prestini nel libro La Dolce Vite. L’apicoltura come intervento di educazione assistita con le persone disabili (FrancoAngeli Editore, Collana “Traiettorie Inclusive-Open Access”, 2017), nel quale ripercorre la storia del miele La Dolce Vite, prodotto dai giovani seguiti dalla Cooperativa La Piramide, che ha portato degli alveari nei pressi di uno dei propri centri educativi, avviando un percorso occupazionale per allevare le api, estrarre il miele, confezionarlo e venderlo. Un’esperienza ricca di significati che ha preso le mosse dalla paura. Sì, avete letto bene, il timore generato dal contatto diretto con le api, animali potenzialmente aggressivi, ha indotto i ragazzi ad un maggiore autocontrollo per placare l’ansia. Piano piano hanno imparato a lavorare su altri aspetti come la voce e la precisione dei movimenti e i risultati in termini di acquisizione di competenze psico-motorie e crescita dell’autostima sono stati sorprendenti; la positiva visione di sé è aumentata ora che toccano con mano il risultato del loro lavoro.

E quando le arnie devono essere sostituite, cosa si fa con quelle vecchie? Seguendo i princìpi dell’economia circolare in cui nulla si butta, tutto si riutilizza e rigenera, a Parma ha preso il via il progetto TEXTURE che coinvolge una rete di undici Associazioni locali per l’inclusione socio-lavorativa di giovani adulti con disabilità usciti dal circuito scolastico. Nel concreto, i ragazzi trasformeranno il legno delle arnie non più funzionali in Bugs Hotel, piccoli rifugi che ospiteranno altre specie di insetti, contribuendo così a mantenere la biodiversità.
Texture è una parola che richiama la consistenza dei materiali, come può essere appunto il legno, e rimanda anche al concetto del lavoro di rete, quello che caratterizza l’iniziativa. Con l’aiuto di figure esperte e volontari, i giovani acquisiranno competenze pratiche e imprenditoriali e alla fine saranno in grado non solo di costruire i Bugs Hotel, ma anche di promuoverli e venderli.

Per concludere, se osserviamo le api nella vita in alveare possiamo imparare da questi piccoli insetti neri e gialli un modello di partecipazione comunitaria alla vita sociale, dove ognuno, in base alle proprie qualità, svolge un compito ben preciso per il benessere di tutti. Oltre a preservare l’ambiente, esse insegnano dunque il valore della collaborazione e, insieme alle api nei progetti che abbiamo raccontato, impariamo l’idea della “diversità” come patrimonio.

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