L’Italia ha discriminato una caregiver del proprio Paese: lo stabilisce l’ONU

«Questa è una “discriminazione per associazione”, in cui una persona è trattata in modo meno favorevole a causa del suo legame con una persona con disabilità»: lo ha stabilito il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, con una pronuncia molto importante, che darà certamente spazio a ulteriori commenti e conseguenze, accogliendo il ricorso di una caregiver familiare del nostro Paese. Per l’Italia c’è dunque l’obbligo di assicurarle una compensazione adeguata e l’accesso a servizi individualizzati di supporto, oltreché di adottare misure per prevenire simili violazioni in futuro

Assistenza a una persona con disabilità grave

Una caregiver familiare assiste una persona con disabilità grave

«Un caso pioneristico»: con queste parole il comunicato pubblicato nel sito delle Nazioni Unite ha definito la vicenda di una caregiver familiare italiana, che si era rivolta al Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, sostenendo che la mancanza di riconoscimento giuridico e di sostegno ai/alle caregiver familiari abbia comportato una violazione dei diritti umani suoi, di sua figlia e del suo partner, entrambi persone con disabilità non autosufficienti di cui lei si prende cura quotidianamente, in contrasto con la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che il nostro Paese sarebbe tenuto a rispettare, visto che l’ha ratificato con la Legge 18/09.
Lo stesso comunicato ha reso pubblico il testo della Decisione del 3 ottobre scorso con la quale il Comitato ONU ha accolto il ricorso della donna, avendo «riscontrato che l’incapacità dell’Italia di fornire servizi di sostegno individualizzati a una famiglia di persone con disabilità è discriminatoria e viola i loro diritti alla vita familiare, a vivere in modo indipendente e ad avere un tenore di vita adeguato».
«Questo caso – ha affermato Markus Schefer, relatore del Comitato ONU per le comunicazioni – rappresenta una svolta perché il Comitato ha riconosciuto la violazione del diritto di un/a caregiver familiare al sostegno sociale, oltre ai diritti delle persone con disabilità». Lo stesso Schefer ha osservato che «questo è anche il primo caso in cui il Comitato ha esaminato le denunce di “discriminazione per associazione”, poiché la ricorrente è stata trattata in modo meno favorevole a causa del suo ruolo di caregiver familiare di persone con disabilità».

Si tratta di una pronuncia molto importante che merita di essere approfondita qui e che darà certamente spazio a ulteriori commenti nei prossimi giorni.
Tutto inizia nel 2017, quando Maria Simona Bellini, con il supporto del CONFAD (Coordinamento Nazionale Famiglie con Disabilità), già Coordinamento Nazionale Famiglie Disabili Gravi e Gravissimi, all’epoca presieduto dalla stessa Bellini, decide di ricorrere al Comitato ONU, ritenendo che la mancanza di riconoscimento giuridico e di sostegno ai/alle caregiver familiari abbia come conseguenza una violazione dei diritti suoi, di sua figlia – una donna con gravissima disabilità di 34 anni – e del suo partner – un uomo di 66 anni divenuto gravemente disabile nel 2007, in conseguenza di un’emorragia cerebrale dagli esiti severi. L’attività di cura la impegna sia il giorno che la notte ed essendo le sue mansioni di assistenza incompatibili col lavoro d’ufficio, dal 2013 al 2017 ottiene di telelavorare da casa. Nel gennaio 2017 questa possibilità non le è stata più concessa, impedendole di mantenere il suo impiego retribuito.
La mancanza di riconoscimento e di sostegno legale, va detto a questo punto, espone i/le caregiver familiari, come la stessa Bellini, a rischio di sperimentare conseguenze negative e pesanti per la loro salute, le finanze, la situazione socio-economica, quella personale e la vita sociale. In particolare le donne, che costituiscono la maggior parte dei caregiver familiari, vanno incontro, tra le altre cose, ad un impoverimento e alla compromissione dei diritti pensionistici. Questo perché nel nostro ordinamento non è prevista nessuna forma di protezione sociale per quelle situazioni nelle quali un/a caregiver familiare perde il lavoro a causa dei suoi impegni di cura.

Bellini ha avvalorato il proprio reclamo individuando tre elementi collegati che ne hanno legittimato il ricorso al Comitato ONU: la circostanza che esiste un collegamento fondamentale tra il prestatore di assistenza e la persona con disabilità; che le attività di assistenza senza alcun riconoscimento giuridico sono una forma di disabilità; e che l’assistenza è un diritto umano sostanziale.
La procedura di ricorso, però, prevede che lo Stato chiamato in causa si esprima sulla ricevibilità e la fondatezza del medesimo. Ebbene, le argomentazioni dello Stato italiano sono riassunte nel paragrafo denominato appunto Osservazioni dello Stato parte sulla ricevibilità e sulla fondatezza, ove il nostro Stato ha dichiarato di ritenere il ricorso in questione irricevibile, sia perché manifestamente infondato, sia per il mancato esaurimento dei mezzi di ricorso interni.
La parte più interessante – e “tragica” – del paragrafo è quella in cui l’Italia cerca di convincere il Comitato ONU che per i/le caregiver la legislazione nazionale prevede diverse forme di protezione, e cita i tre giorni di “permesso mensile” retribuito ai sensi dell’articolo 33 della Legge 104/92, rivolto ai dipendenti pubblici o privati che assistono familiari con gravi disabilità; le ferie straordinarie retribuite di assenza dal lavoro come previsto dall’articolo 42 del Decreto Legislativo 151/01, che viene concesso per un periodo di due anni per un dipendente che assiste una persona con disabilità; il Fondo per la Non Autosufficienza, che fornisce sostegno ai familiari delle persone con disabilità; il Fondo per sostenere il caregiving e il ruolo assistenziale del caregiver familiare, istituito ai sensi dell’articolo 1 (comma 254) della Legge 205/17; il congedo parentale più lungo, fino a tre anni, offerto ai genitori di un bambino con disabilità (Decreto Legislativo 151/01). Come a dire: la richiesta è infondata perché le tutele per i/le caregiver in Italia ci sono…

Tali argomentazioni, però, non hanno convinto il Comitato ONU, che infatti ha osservato come «nessuna delle misure cui fa riferimento lo Stato è rilevante per la sua situazione familiare, considerando il fatto che i suoi familiari richiedono assistenza continua», e che «nessuna forma di rimedio o risarcimento è stata fornita alla sua famiglia per affrontare la loro situazione, anche con i fondi a cui fa riferimento lo Stato».
L’aspetto “tragico” consiste nel fatto che lo Stato italiano, nel ritenere il ricorso manifestamente infondato, sembra non rendersi conto delle reali, e spesso disumane, condizioni in cui vivono molti/e caregiver italiani, e che ritenga le attuali misure sufficientemente tutelanti per loro.

Dopo un esame dettagliato della documentazione prodotta dai soggetti coinvolti, dunque, e di tutte le disposizioni chiamate in causa, il Comitato ONU ha formulato le proprie conclusioni, ritenendo che lo Stato Parte della Convenzione sia venuto meno agli obblighi che gli competono in forza degli articoli 19 (Vita indipendente ed inclusione nella società), 23 (Rispetto del domicilio e della famiglia) e 28 (Adeguati livelli di vita e protezione sociale), paragrafo 2, lettera c)* della Convenzione ONU nei confronti della figlia e del partner della ricorrente, nonché agli obblighi di cui all’articolo 28, paragrafo 2, lettera c, nei confronti della ricorrente stessa.
In risposta a tali violazioni, il Comitato ha stabilito che nei confronti della ricorrente, di sua figlia e del suo partner l’Italia ha l’obbligo di concedere un adeguato compenso, anche per le eventuali spese legali sostenute per il deposito del ricorso in esame, nonché di adottare misure appropriate per garantire che la loro famiglia abbia accesso a servizi di supporto individualizzati adeguati, compresi i servizi di sollievo dall’assistenza, il sostegno finanziario, i servizi di consulenza, il sostegno sociale e altre opzioni di supporto adeguate al fine di garantire il godimento dei diritti sanciti della Convenzione di cui è stata contestata la violazione. All’Italia è inoltre attribuito l’obbligo di adottare misure per prevenire simili violazioni in futuro, modificando, se necessario, la propria legislazione, reindirizzando le proprie risorse dall’istituzionalizzazione ai servizi di comunità e aumentando il supporto finanziario per consentire alle persone con disabilità di vivere in modo indipendente e di avere uguale accesso ai servizi, ivi inclusa l’assistenza personale ed il supporto per i/le caregivers familiari, se del caso.
Infine, al nostro Paese è stato richiesto di presentare, entro sei mesi, una risposta scritta al Comitato ONU su quali azioni intenda intraprendere per dare attuazione alle disposizioni formulate e di pubblicare queste ultime, di farle tradurre in italiano e di diffonderle ampiamente, anche in formati accessibili, al fine di raggiungere tutti settori della popolazione. (Simona Lancioni)

*L’articolo 28, paragrafo 2, lettera c della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità impegna gli Stati Parti a riconoscere il diritto delle persone con disabilità alla protezione sociale ed al godimento di questo diritto senza alcuna discriminazione fondata sulla disabilità, e ad adottare misure adeguate a tutelare e promuovere l’esercizio di questo diritto, ivi incluse misure per «garantire alle persone con disabilità e alle loro famiglie, che vivono in situazioni di povertà, l’accesso all’aiuto pubblico per sostenere le spese collegate alle disabilità, includendo una formazione adeguata, forme di sostegno ed orientamento, aiuto economico o forme di presa in carico». 

Il presente contributo costituisce un estratto, con modifiche e integrazioni, di un testo già apparso nel sito di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa). Per gentile concessione.

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