Riflessioni “a bocce ferme” su quei casi di omicidio-suicidio

«Ci sono vicende – scrive Simona Lancioni – che vengono commentate “a caldo”, sulla spinta dell’impulso emotivo, per poi tornare ad occuparsene solo quando si ripresentano situazioni simili. È il caso, ad esempio, degli episodi di omicidio-suicidio posti in essere da alcuni/e caregiver ai danni di se stessi e della persona con disabilità di cui si curano. Ma quali sono le riflessioni che si potrebbero fare “a bocce ferme” su tali tragiche vicende?»

Auguste Rodin, "Le Penseur"

Auguste Rodin, “Le Penseur”

Ci sono vicende che commentiamo “a caldo”, sulla spinta dell’impulso emotivo, per poi tornare ad occuparcene solo quando la situazione si ripresenta. Parlare degli episodi di omicidio-suicidio posti in essere da alcuni/e caregiver ai danni di se stessi e della persona con disabilità di cui si curano suscita dolore, e se non c’è un fatto di cronaca che rende difficile eludere il tema, alla fine chi ce lo fa fare? Non saprei, la coscienza morale è una risposta ammessa? Quali sono, dunque, le riflessioni che si potrebbero fare su questo fenomeno “a bocce ferme”?

La figura del caregiver in Italia non gode di tutele previdenziali, assicurative o di altro tipo. È iniziata una procedura per il riconoscimento giuridico di essa, ma questa non ha ancora portato a garantire a chi riveste questo ruolo il diritto a essere visto nella propria soggettività, il diritto alla salute, al riposo, alle cure, a mantenere il proprio posto di lavoro, ad avere una vita sociale, ad avere spazi per sé che non siano fagocitati dal lavoro di cura.
Vivere così per molti anni, decenni, a volte molti decenni, è sfiancante e può portare alla disperazione. Alcuni/e caregiver si curano di una persona con disabilità per una parte importante della propria vita e dunque che ne sarà di quest’ultima quando loro non saranno più in grado di farlo?
Questa, che si ripropone come un mantra, è in realtà una domanda mal posta perché sottende che l’assistenza a una persona con disabilità, anche quando è adulta (ossia è maggiore di 18 anni), competa in prima istanza alla famiglia e non allo Stato, cosa che non è in linea con la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che invece riconosce anche a queste ultime la libertà di autodeterminarsi. Ma tant’è, il/la caregiver quella domanda se la pone eccome, ed è proprio dalla risposta a questa domanda che il futuro può prendere pieghe diverse.
La possibilità di finanziare i progetti di Vita Indipendente (introdotta dalla Legge 162/98), e la cosiddetta “Legge sul Dopo di Noi” (Legge 112/16) sono i due strumenti messi in campo per abbozzare una risposta dignitosa all’annosa questione. Problema risolto, dunque? Niente affatto, se è vero che entrambe le misure hanno un’applicazione limitata ed estremamente eterogenea sul territorio, la qual cosa impedisce a moltissime persone con disabilità di accedervi, e l’alternativa, purtroppo, continua ad essere l’istituzionalizzazione, sebbene essa costituisca in sé una forma di violenza nei confronti delle persone con disabilità (come ribadito, solo pochi mesi fa, dal Comitato ONU per i Diritti delle Persone con Disabilità, ciò di cui si può leggere a questo link).

«Non si vuole abbandonare il proprio congiunto in qualche struttura di merda dove non verrebbe curato», argomenta un signore su Facebook, commentando un fatto accaduto pochi giorni or sono ad Ortona, in provincia di Chieti, dove un uomo di 70 anni si è impiccato dopo avere strangolato il fratello con disabilità (di 74 anni) a cui prestava assistenza (se ne legga anche sulle nostre pagine).
Se però l’istituzionalizzazione è violenta, la soppressione fisica della persona lo è molto di più, visto che la prima è compatibile con la vita ed è reversibile, mentre la seconda non è né l’una né l’altra cosa. Ma né il signore su Facebook, né l’omicida ortonese sembrano essersi posti il problema e anche a livello generale vi è la tendenza a presentare questi fatti come gesti estremi giustificati da disperazioni altrettanto estreme. C’è poi anche chi giunge fino alla completa deresponsabilizzazione: l’omicida non sarebbe altro che l’esecutore materiale di un reato moralmente imputabile allo “Stato assente”. Ma è davvero così?

Io credo che la disperazione possa spiegare il suicidio, ma che non consenta di leggere in maniera adeguata l’omicidio. Penso questo perché solitamente il/la caregiver che compie questi gesti sceglie unilateralmente di porre fine alla vita della persona di cui si cura, senza preoccuparsi di verificare se questa è d’accordo e attribuendo anche a lei una volontà di morte che magari non ha.
Trovo una conferma di questa lettura nei rari casi in cui la persona con disabilità è riuscita a sfuggire all’aggressore. Una vicenda accaduta a Villaretto di Roure (Torino) costituisce una situazione esemplare: «Mio marito mi vuole uccidere». Malata di Sla lancia l’allarme grazie a un battito di ciglia («Corriere della Sera», 1° settembre 2015). In quest’altra storia, accaduta a Saltrio (Varese), una donna cieca di 31 anni è morta uccisa dal padre che poi si è suicidato (Si uccide col gas insieme alla figlia disabile, «ANSA – Lombardia», 20 luglio 2020). In questo caso la donna non si è salvata, ma dalla ricostruzione effettuata dai Carabinieri risulta che l’uomo abbia attuato il suo piano con l’inganno: «Secondo i primi accertamenti dei Carabinieri, l’uomo non accettava l’idea di morire [era gravemente malato, N.d.R.], abbandonando così la figlia cieca dalla nascita. Così, con la scusa di accompagnarla ad un concerto di musica classica, grande passione della 31enne, l’ha portata nella casa di campagna. Poi l’ha stordita con del Valium, che ha assunto a sua volta, e si è chiuso con la figlia nel garage della casa di campagna, attendendo la morte con un cd di musica classica inserito nella radio dell’auto».

Com’è possibile che vengano uccise persone che vogliono vivere? La prima cosa che viene in mente è che alcuni/e caregiver svolgano il proprio ruolo con modalità paternalistiche, e si sostituiscano alla persona con disabilità perché non le riconoscono la capacità e il diritto di disporre di sé, cosa illegittima anche nei casi di persone con disabilità intellettiva e psichiatrica.
Un’altra possibile spiegazione possiamo trovarla in un passo del Talmud, uno dei testi sacri dell’ebraismo, che recita: «Noi non vediamo le cose come sono; vediamo le cose come siamo». Non sono una teologa, e neppure un’esegeta, però credo significhi che gli esseri umani tendono ad interpretare la realtà sulla base dei propri stati d’animo o del proprio approccio alla vita, senza sospettare che la mente possa distorcere la realtà stessa per assecondare le disposizioni dell’essere pensante. Si tratta di un aspetto indagato anche nell’àmbito della psicanalisi junghiana. Accade così che se siamo contenti e ben disposti, tendiamo a credere che anche gli altri lo siano; se invece siamo competitivi, guarderemo gli altri con sospetto e vedremo in chiunque competa un potenziale avversario/nemico; se, altra ipotesi, siamo disperati e abbiamo fantasie suicide, anche la vita degli altri potrebbe apparirci priva di valore e insensata. Se poi la vita della quale stiamo soppesando il valore e il senso è quella di una persona con disabilità, allora anche l’abilismo – al quale i/le caregiver non sono affatto estranei – ha un peso specifico ben preciso.
Stando così le cose, anche se sembra surreale doverlo specificare, potremmo convenire che prima di uccidere qualcuno sarebbe importante “chiedergli il permesso”. E se la persona non fosse in grado di comprendere il quesito o esprimersi, dovremmo disporci a imputarle sempre e solo una volontà di vita, non essendo attribuibile ad alcun essere umano una volontà di morte mai espressa.

C’è poi un ulteriore aspetto che solitamente non viene rilevato. Si tratta del silenzio delle persone con disabilità. Non mi riferisco naturalmente a quelle uccise, che non parlano per ovvi motivi, mi riferisco alle altre. Le persone con disabilità delle ultime generazioni, forti del loro percorso di autoconsapevolezza, si esprimono pressoché su tutti gli aspetti che riguardano la disabilità, e tuttavia è abbastanza raro che commentino queste vicende. Non è difficile immaginare quale sentimento di angoscia e terrore possa suscitare in loro scoprire che persino chi spende una parte significativa della propria esistenza a curarsi di loro, possa arrivare a pianificare il loro omicidio.
Una delle poche preziose eccezioni a questa costante è data da Elena Paolini, donna con disabilità, attivista per i diritti umani delle persone con disabilità e co-fondatrice di Witty Wheels. «Non voglio scrivere cose inutili sulla donna che il 6 settembre [del 2018, N.d.R.] ha ucciso i suoi figli disabili in provincia di Cagliari. Al contempo ogni volta che leggo un articolo sulla vicenda mi viene il mal di stomaco, non solo per la vicenda in sé ma anche per il modo in cui se ne parla. E poi è difficile, perché essendo disabile mi identifico con la parte uccisa. La parte immobile sul letto che vede arrivare la propria madre con un fucile da caccia», scrive, tra le altre cose, Paolini, in un virgolettato ripreso in un testo del 2020, a cura di Sara Carnovali (disponibile a questo link).
Paolini e Carnovali, correttamente, evidenziano anche l’abilismo che permea la narrazione mediatica di questi fatti di cronaca.

Come reagiscono invece i/le caregiver a queste notizie? Con dolore, mi sembra evidente. Alcuni/e di loro usano queste storie per fare pressione verso le Istituzioni al fine di accelerare l’iter del riconoscimento del caregiver familiare. In passato, sia pure in modo sfumato, l’ho fatto anch’io, oggi però ritengo discutibile che sia opportuno farlo.
Nei giorni scorsi, ad esempio, in relazione al già citato caso di Ortona, Alessandra Corradi e Giovanni Barin, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’Associazione Genitori Tosti in Tutti i Posti, hanno dichiarato: «Di fronte all’ultimo fatto tragico di omicidio/suicidio avvenuto un paio di giorni fa a Ortona (Chieti), la nostra Associazione chiede che, con repentina responsabilità, il Governo e il Parlamento pongano definitivamente mano all’iter del Disegno di Legge sul riconoscimento del caregiver familiare italiano come lavoratore, e dispongano tutti i servizi che abbiamo sempre elencato essere necessari affinché chi presta assistenza al proprio familiare non sia lasciato mai solo» (se ne legga su queste stesse pagine).
Intendiamoci, quella del riconoscimento giuridico del caregiver familiare italiano è una causa sacrosanta, ed è verosimile ritenere che la mancanza di tutele sia una delle concause alla base dei suicidi dei/delle caregiver. Ma i/le caregiver non si limitano a suicidarsi, scelta dolorosissima, che andrebbe prevenuta in tutti i modi, ma che rientra negli atti di disposizione di sé; nelle vicende di cui ci stimo occupando il/la caregiver compie anche un omicidio, ovvero la forma più estrema di violazione dei diritti umani, e lo compie ai danni di un soggetto che ha scarsissime possibilità di sottrarsi al suo controllo.
Dunque mi viene da chiedere: è davvero opportuno fare leva su una vicenda in cui la vita di una persona con disabilità è stata arbitrariamente soppressa proprio per mano di un caregiver allo scopo di promuovere i diritti umani dei/delle caregiver? Io credo che chi promuove la causa del riconoscimento giuridico del caregiver familiare italiano, una causa di altissimo valore etico, debba trovare la forza e la lucidità di ammettere che chi uccide una persona con disabilità non debba essere in alcun modo accostato a chi promuove il rispetto dei diritti umani.

Responsabile di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), nel cui sito il presente contributo di riflessione è già apparso e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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