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Quel silenzio che fa male

"Alla finestra" (foto di Marino Bottà)

“Alla finestra” (foto di Marino Bottà)

Il rumore oramai ci appartiene, lo cerchiamo inconsciamente, e quando la pandemia sprofonda le città nel silenzio, ne siamo angosciati, terrorizzati e cerchiamo con ansia ogni suono proveniente dal fuori delle nostre mura di casa.
Guido il silenzio lo aveva dentro. Non diceva mai una parola! Dalla finestra dell’istituto guardava il lago per ore e ore. Solo lui sapeva quello che pensava del mondo, della sua vita, di noi.
Nato in una famiglia ricca della Brianza, era stato rinchiuso in un istituto di lusso in un piccolo paese del Lago di Como. Un giorno, entrando nella sua camera, vidi che stava guardando dei fogli stesi sul letto. Mi chinai per raccoglierne uno che gli era caduto nella fretta di riordinarli al mio arrivo. C’era il disegno, a mo’ di progetto, dello scafo di una barca a vela. Seppi poi che suo padre era proprietario di un’azienda nautica. Era passato poco più di un mese da quel giorno, e ora ero seduto con lui sul bordo del letto e guardavamo i suoi progetti di imbarcazioni. Non parlava, ma rispondeva alle mie domande. Quando un anno dopo me ne andai, non venne a salutarmi. Rimase alla finestra a guardarmi. Il ricordo di lui, della sua silente malinconia non mi ha mai abbandonato.

Aveva 28 anni quando venne da me. Sergio a 12 anni aveva deciso di non parlare. Non parlava nemmeno con il padre e con il fratello maggiore. Solo la mamma sapeva! Lei era rimasta l’unica strada di accesso. Tempo dopo seppi da lui che nemmeno lo psichiatra che lo seguiva da nove anni era riuscito a farlo parlare. Quando i genitori vennero da me erano disperati. Lui seduto, a capo chino, in mezzo a loro, non profferì una parola. Ma ascoltava tutto quello che dicevamo.
Lo salutai chiedendogli di venirmi a trovare da solo. Dopo alcune settimane la madre lo convinse a tornare da me. Passarono alcuni mesi prima di riuscire a trovare un’azienda adatta dove inserirlo in tirocinio. Ogni volta che andavo in azienda chiacchieravamo delle nostre cose. L’azienda poi lo assunse a tempo indeterminato. Ancora oggi ci lavora e parla con i suoi colleghi.

Era così anche per Damiano. In quei tempi lavoravo in un Centro di Formazione Professionale speciale. Un insegnante della scuola media me lo presentò dicendomi che non lo aveva mai sentito parlare. Non parlava con nessuno. Non aggiunse altro.
Nei primi mesi faceva fatica a guardarmi, ma non perdeva una mia parola o un mio movimento. Lavorava con me nel laboratorio di ceramica. Ma noi ci intendevamo comunque. Ci vollero tre anni per riuscire a fargli dire qualche cosa e portarlo in una fabbrica di coltelli. Gli insegnai a confezionare i vari prodotti e successivamente lo affiancai su una macchina che marchiava il metallo delle lame. Cominciò a rispondere alle richieste dei colleghi; poche parole emesse guardando di sottecchi l’interlocutore. Purtroppo dopo una quindicina d’anni dalla sua assunzione, l’azienda chiuse l’attività.
Ogni tanto lo vedo con il suo scooter girare per la città. Quello scooter che abbiamo comprato insieme, contro il parere del padre che voleva tutto lo stipendio per sé, per farne cattivo uso.

Il silenzio fa male a chi è costretto da se stesso a tacere, e anche a chi lo vede negli occhi di una persona cara. Il silenzio ci spaventa, e spesso ci sconcerta, sopratutto quando siamo immersi nella natura. Non siamo più abituati ad ascoltarci, ad ascoltare le voci che vengono da dentro di noi. Fuggiamo verso un nevrotico, rumoroso e anestetico riempimento del tempo. Un silenzio che ci avvolge e ci immerge, portandoci in un mondo civilizzato, dimentico dell’impercettibile passo di un piccolo essere, del frusciare del vento, dello sciacquio dell’acqua, e che ti fa sentire la tua esistenza, la tua anima e il tuo corpo.
Un neuropsichiatra mi spiegò che questo atteggiamento veniva chiamato “mutismo elettivo” e quali ne potevano essere le cause, ma a me interessava capire come aiutare quelle persone. L’affetto si rivelò l’unica cura efficace. Quanti silenzi si potrebbero interrompere, se qualcuno si occupasse veramente di loro. Quante vite immerse nella solitudine attendono qualcuno che le aiuti a cacciare le loro ansie e le loro paure. L’affetto è il viatico di ogni successo inclusivo. È lo strumento che ti dà la soddisfazione professionale e umana di essere riuscito a migliorare la qualità di vita ad un’altra persona.
Il mutismo elettivo e la comunicazione evitata sono fenomeni molto diffusi fra le persone con disabilità psichica e la possibilità di inserimento nel lavoro è pressoché nulla, a meno che non si riesca a conquistare la loro fiducia.

Gli addetti ai lavori dicono che i servizi psichiatrici sono all’osso, che i territori sono sguarniti oramai anche dell’indispensabile. Sul versante del lavoro le cose vanno ancora peggio.
Le aziende soggette agli obblighi di assunzione di lavoratori con disabilità, come da Legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili) non li vogliono in azienda.
Lo scorso anno l’Associazione ANDEL (Agenzia Nazionale Disabilità e Lavoro) chiese al Ministro del Lavoro, attraverso un’Interrogazione Parlamentare, quante aziende avessero fatto ricorso al Fondo Nazionale per il Diritto al Lavoro dei Disabili e si venne a sapere che era stato richiesto solo da poche centinaia di aziende. Com’è possibile, visto che da una parte la malattia mentale è diventata la prima causa di invalidità, e che dall’altra le persone con disabilità intellettiva sono in costante crescita? Come si può restare immobili di fronte ad un assopito sistema italiano di Collocamento Disabili e alla crescita esponenziale di iscrizioni a seguito della crisi economica e della pandemia?
Ci sono nuove possibilità occupazionali, nuovi strumenti contrattuali, buone prassi che possono favorire l’inclusione lavorativa e tuttavia non vengono utilizzate. I servizi interessati, le aziende, le cooperative sociali, le associazioni, non ne sono al corrente. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sta rovesciando personale e risorse economiche sulle Regioni per potenziare i Centri per l’Impiego, ma temo che avremo un’amara sorpresa nello scoprire che nulla sarà cambiato.
È per questa ragione che l’ANDEL invita tutte le associazioni, i servizi, i singoli operatori ad organizzare nelle loro regioni convegni che non si configurino come una passerella per i politici e i rappresentanti delle Istituzioni, ma come il punto di partenza per strutturare un intervento a favore della disabilità psichica e intellettiva.
La sofferenza e l’isolamento di queste persone e la disperazione delle famiglie non possono attendere oltre. È ora di riformare la Legge 68/99 e il sistema del Collocamento Disabili! Ma questo avverrà solo se ci faremo sentire!

Già responsabile del Collocamento Disabili e Fasce Deboli della Provincia di Lecco, oggi direttore generale dell’ANDEL (Agenzia Nazionale Disabilità e Lavoro) (marino.botta@andelagenzia.it).

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