D’ora in poi sarà vietato snobbarlo o definirlo, come in passato, “spazzatura”: infatti, quella metà del nostro genoma costituita da sequenze di DNA ripetute centinaia di migliaia di volte che sembravano prive di significato in realtà risponde a un preciso programma genetico e contribuisce in maniera decisiva a dare un’identità alle diverse cellule dell’organismo umano.
La scoperta è stata annunciata in questi giorni dalla rivista «Nature Genetics» ed è il frutto di una collaborazione internazionale cui hanno preso parte il gruppo di lavoro del Laboratorio di Epigenetica del Dulbecco Telethon Institute guidato da Valerio Orlando e ospitato dall’IRCCS Fondazione Santa Lucia e dall’EBRI di Roma, insieme al team di Piero Carninci dell’OMICS Centre del RIKEN di Yokohama in Giappone e all’Università di Queensland in Australia.
In Italia lo studio è stato finanziato dal Telethon, dall’AIRC (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro) e dalla Compagnia di San Paolo.
Tale ricerca segna certamente una “tappa storica” nella ricerca genetica, svelando come il cosiddetto “lato oscuro del genoma” si comporti esattamente come i geni, che rappresentano invece soltanto il 2% dell’intero patrimonio genetico.
Ma non solo: quelle sequenze ripetute sono essenziali per il corretto funzionamento dei geni stessi. Infatti, i ricercatori hanno dimostrato che alcune di esse vengono trascritte in precisi momenti della vita cellulare, ad esempio durante le prime fasi dello sviluppo o il differenziamento, mentre altre sono in grado di inserirsi in prossimità dei geni e di regolarne l’attività. In alcuni casi, poi, questo fenomeno può avere anche effetti patologici significativi come ad esempio la trasformazione della cellula sana in una tumorale. Il lavoro di Orlando, Carninci e collaboratori dimostra quindi per la prima volta come tali sequenze si comportino secondo un programma definito e in grado di influenzare la vita delle cellule.
L’origine evolutiva delle sequenze ripetute – che in totale rappresentano ben il 45% dell’intero genoma – va ricercata nei trasposoni, particolari segmenti di DNA che hanno la capacità di spostarsi da una parte all’altra di un cromosoma, oppure da un cromosoma a un altro. I trasposoni hanno un ruolo molto importante dal punto di vista evolutivo, perché data la loro natura mobile sono in grado di creare variabilità e – potenzialmente – di fare acquisire o di far perdere delle funzioni biologiche.
Già circa sessant’anni fa la biologa americana Barbara McClintock lo aveva intuito e aveva descritto queste particolari sequenze nella pianta di mais: era il 1951, con due anni in anticipo rispetto alla scoperta della struttura a doppia elica del DNA. Ignorata, quando non direttamente osteggiata dalla comunità scientifica di allora – ancorata a una visione “statica” del genoma – McClintock ha visto riconosciuti i suoi meriti solo a partire dagli anni Settanta, arrivando poi nel 1983 ad essere insignita del Premio Nobel per la Medicina.
Oggi, grazie soprattutto alle sofisticate tecnologie disponibili (le deep sequencing) e alle competenze multidisciplinari, Orlando, Carninci e i loro collaboratori sono riusciti finalmente a verificare questa fondamentale ipotesi e a “riabilitare” questa grossa porzione del nostro DNA, finora considerata appunto come una sorta di “scarto” o, meglio, di “DNA clandestino e misterioso”, apparentemente inutilizzato.
La scoperta potrà contribuire all’analisi di tutti quei meccanismi che agiscono “al di sopra dei geni” – detti per questo epigenetici – e che potrebbero influenzare, tra l’altro, la diversa manifestazione delle malattie tra singoli individui, la risposta individuale ai farmaci o, in casi particolari, l’applicabilità della terapia genica. (Ufficio Stampa Telethon)