Perché lavorare in un sottoscala viola i diritti umani

«Da Cittadino – scrive Angelo D. Marra – mi fa “paura” pensare che gli italiani siano disposti a mettere da parte la dignità della persona pur di lavorare. E invece non bisogna mai dimenticare che situazioni come quella riguardante la donna con disabilità costretta a lavorare in un sottoscala, sono “semplicemente” violazioni dei diritti umani, che non possiamo e non dobbiamo permetterci»

Sullo sfondo omini di molti colori, in primo piano omino rosso in carrozzina. Immagine che rappresenta la discriminazione delle persone con disabilità Ci sono cose che, quando le leggi, ti fanno “prudere la penna in mano”. Allora bisogna scrivere, commentare, reagire, parlare. Non si può stare in silenzio. Non si deve stare in silenzio. Altrimenti si cede alla rassegnazione e all’omertà. E allora, eccomi a scrivere.
La notizia è presto detta: una persona disabile, che si muove in sedia rotelle, è costretta a lavorare nel sottoscala del Palazzo del Giudice di Pace di Cavarzere (Venezia). Il motivo è semplice: gli uffici sono al piano di sopra e per raggiungerli non c’è altro che una scala, lunga e ripida.
Il fatto è che Eleonora, 28 anni, laureata in medicina, ha vinto una selezione pubblica, regolarmente indetta dal Ministero di Grazia e Giustizia nel giugno del 2011, che era destinata proprio a dare lavoro a ben 197 persone con disabilità in giro per l’Italia.
Se n’era occupato, su queste stesse pagine, l’amico Franco Bomprezzi, riprendendo una notizia apparsa sul «Gazzettino» di Venezia. Qui vorrei però andare oltre la notizia stessa, e riflettere sul “commento” di un lettore, apparso in calce a quell’articolo del «Gazzettino».
Questo il testo: «Condivido con tony ci sono molte persone che non hanno lavoro… sia disabili che non.. io sono stata a casa 5 mesi.. e ringrazio dio solo 5 io fossi la ragazza bacerei l’entrata del suo “scantinato” solo per il fatto di avere un lavoro che nessuno le toglierà mai.. io di certo non entro a lavorare ne in comune ne in provincia ne in regione commento inviato il 20-10-2012 alle 11:15 da brenda».

Queste righe mi fanno riflettere e mi fanno “paura”, da Cittadino. Significa che gli italiani sono disposti a mettere da parte la dignità della persona pur di lavorare? Temo di sì. L’ennesima conferma di questo atteggiamento la leggiamo tra le righe – e neanche tanto “tra” – nel tono quasi “di rimprovero” del commento che ho riportato. Certo, si potrebbe pensare: in Italia il lavoro neanche c’è e ti lamenti per le condizioni di lavoro? Ma dove vivi? Devi solo ringraziare per la fortuna che hai avuto!
Il problema è che questo modo di pensare è socialmente ritenuto – anche se nessuno lo confessa – accettabile. È questo il problema del Paese. È un problema, ed è un problema serio: non “vediamo” più che ciò che è stato riportato dal «Gazzettino» e commentato da Bomprezzi è né più né meno che una violazione dei diritti umani (articoli 1, 3, 9 e 27 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità del 2006), di norme costituzionali, di leggi ordinarie (da quelle specifiche sul diritto al lavoro delle persone con disabilità, a quelle sui diritti dei lavoratori in generale, passando per le norme sulla riservatezza dei dati – Nota Bene: dell’ufficio pubblico, non dell’impiegato – fino a quelle relative alla sicurezza sul lavoro). Siamo come anestetizzati e – se non rimaniamo vigili – queste cose ci scivolano addosso.

Dove vivo? In uno Stato di diritto! Ecco dove vivo, perciò pretendo che i diritti siano presi sul serio (viene in mente un grande classico del pensiero giuridico contemporaneo, come I diritti presi sul serio di Ronald Dworkin). Non lo spero: lo pretendo.
Purtroppo, di fronte a una cosa del genere, non siamo più abituati allo sdegno, alla rivendicazione del diritto senza se e senza ma. È grave che i Cittadini abbassino la testa. Cosi facendo, smettono di essere Cittadini e diventano “sudditi”.
Noi – abitanti di questo Paese in eterna “emergenza” – questo non ce lo possiamo permettere, non ce lo dobbiamo permettere. Perché quando i diritti sono così violentemente calpestati, c’è solo una cosa da fare: reagire. Altrimenti si finisce per legittimare comportamenti che ricordano il caporalato, il lavoro nero diventa “normale” (al grido di: «lavoro nero è meglio di nessun lavoro»), il Paese non cresce e tutto sembra prima normale, poi inevitabile e – infine – giusto.
Attenzione: il “tutto” di cui parlo è una violazione dei diritti e questo pensiero “rassegnato” porta  a scambiarla per giustizia e per rispetto delle regole. E a proposito di Decreti “Salva-Italia”, vorrei che i nostri governanti e lo Stato si ricordassero che l’Italia da salvare è quella delle regole e dei diritti. Oggi è proprio in gioco la salus rei publicae. Ma cosa posso fare io? Scriverne!

Chiudo con le parole di Dante che fotografano la situazione in cui viviamo: «Ahi serva Italia /, di dolore ostello /, nave sanza nocchiere in gran tempesta /, non donna di provincie, ma bordello!».
La “bussola” per uscire dalla tempesta esiste: il rifiuto del compromesso, il rispetto dei diritti umani, il rispetto della dignità della persona – a partire dalle cose immediatamente visibili – e l’esercizio dei diritti civili sono l’antidoto alla crisi e al “Crisi-Pensiero”. Non il calpestamento sistematico dei soggetti più deboli della società al grido di «siamo spiacenti, ma meglio di così non si può fare».
Non possiamo e non dobbiamo smettere di essere Cittadini: lavorare in un sottoscala non è civile ed è scandaloso. Punto. Quando leggo queste notizie, mi viene in mente Giorgio Gaber con il suo «Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono!». Sottoscrivo in pieno.

Avvocato. Dottore di Ricerca in Diritto Civile.

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