Quei luoghi “chiusi” che alimentano violenza verso le persone con disabilità

«Tanto più un servizio residenziale, un appartamento o una famiglia sono aperti e coinvolti in diverse attività sociali, tanto più eventuali violenze e abusi possono essere identificati, denunciati e contrastati. È invece all’interno di residenze, appartamenti e famiglie “chiuse” e isolate che quelle violenze rischiano di compiersi e di restare invisibili alla società esterna»: così la Federazione LEDHA commenta l’allontanamento e l’indagine in corso su cinque operatori di una RSD di Brescia (Residenza Sanitaria Disabili), per gravi maltrattamenti ai danni di almeno nove persone ricoverate

Scultura di figura antropomorfica con mani davanti alla faccia«Chiediamo che il lavoro della Magistratura possa concludersi il prima possibile, per fare chiarezza su una vicenda inaccettabile che dimostra quanto la violenza ai danni delle persone con disabilità sia ancora diffusa nella nostra società. Una violenza che si fatica a vedere, a riconoscere e soprattutto a intercettare»: lo scrivono dalla LEDHA, la Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, che costituisce la componente lombarda della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), commentando la notizia apparsa nei giorni scorsi, secondo cui cinque operatori di una RSD di Brescia (Residenza Sanitaria per Disabili) sono stati allontanati dalla struttura sanitaria e indagati per maltrattamenti ai danni di almeno nove persone ricoverate.
Secondo quanto riferito dalle testate che hanno pubblicato la notizia sarebbero circa ottanta gli episodi contestati, alla luce dell’inchiesta condotta dai Carabinieri dei NAS, dopo un’inchiesta nata da una segnalazione partita dai vertici della stessa struttura pubblica e collegata agli Spedali Civili di Brescia, che avevano notato segni di lesioni su un’ospite della struttura, una donna allettata che non aveva modo di farsi del male.
I cinque indagati, come si è potuto ancora leggere – avrebbero «agito con crudeltà», secondo quanto riportato negli atti dell’inchiesta, percuotendo, minacciando e offendendo in modo gratuito le persone ricoverate. Avrebbero inoltre «in modo consapevole e volontario», omesso o ritardato «le cure doverose» e usato violenza «inutilmente e deliberatamente» nell’esercizio delle rispettive mansioni «ai danni di persone deboli e indifese alla mercé delle loro azioni».

«Ridurre questi episodi a singoli casi – dichiarano ancora dalla LEDHA -, puntando il dito contro un ristretto numero di “mele marce” sarebbe sbagliato. Occorre quindi interrogarsi sulle dinamiche che stanno alla base di questi comportamenti che possono interessare tanto le grandi residenze sanitarie, quanto i piccoli gruppi e persino le famiglie. La violenza ai danni delle persone con disabilità non ha nulla a che vedere con i numeri. È piuttosto legata alla presenza o meno di relazioni sociali. Infatti, tanto più un servizio residenziale, un appartamento o una famiglia sono aperti e coinvolti da attività sociali di diverso tipo, tanto più aumenta la possibilità che eventuali episodi di violenza e abusi vengano identificati, denunciati e contrastati. Per contro è all’interno di residenze, appartamenti e famiglie “chiuse” e isolate che questa violenza rischia di compiersi e di restare invisibile alla società esterna e a tutti coloro che possono intercettarla e agire per contrastarla». (S.B.)

Per ulteriori informazioni e approfondimenti: ufficiostampa@ledha.it.

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