Un dato di fatto: quello che non fanno per noi Stato, Regioni, ASL e Comuni sono purtroppo le cose che servirebbero davvero.
Innanzitutto non si fa abbastanza prevenzione per evitare che si creino altre “famiglie con disabilità”, la maggior parte delle quali deriva non da un “atto di Dio”, ma da incidenti, errori umani o conseguenze evitabili di situazioni note.
Insomma, non si riesce ancora a far mettere salde radici alla cultura della responsabilità, non solo penale ma anche umana. E questo vale soprattutto per la Sanità, ove spesso la ricerca dell’errore mira più al suo occultamento che alla sua ammissione precoce e spontanea per prevenirne le conseguenze.
Anche quando la disabilità non deriva da responsabilità umana, non si fa abbastanza per diagnosticarla precocemente, prenderla in carico nella sua complessità, assistere la sgomenta famiglia, facendola sentire partecipe di un progetto di riabilitazione globale che miri a coinvolgerla, responsabilizzarla (di solito non ce n’è alcun bisogno!), informarla, farla entrare a far parte dell’équipe riabilitativa con pari dignità degli altri membri.
Non viene purtroppo “creata” quella figura di riferimento capace di rapportarsi e di fare da sintesi tra gli specialisti delle varie discipline – che parlano poco e male – e la famiglia. Non viene attuata quella “presa in carico” di cui si parla da decenni che dovrebbe “levare” dalle spalle della famiglia quei pesi che possono essere tolti. Non il dolore, la preoccupazione costante, l’ansia per il domani. Spesso quello “che c’è” è più a vantaggio della struttura che delle famiglie e questo vale anche negli altri settori.
La pensione, ad esempio. Quella che viene erogata non è certo degna di questo nome. Chi è impossibilitato a svolgere autonomamente gli atti necessari al mantenimento in vita come può restare in questo mondo con circa 400 euro al mese, che diventano 700 alla maggiore età?
Le leggi regionali sulla non-autosufficienza? Il modesto assegno che dovrebbe integrare pensione e indennità di accompagnamento viene erogato, in molte regioni, solo a chi ha una reddito familiare (ISEE) inferiore a cifre incompatibili con la permanenza “in famiglia” di un disabile grave. E questo malgrado la legge preveda chiaramente che nel caso di disabili gravi il riferimento debba essere solo al reddito personale, non a quello del gruppo familiare (articolo 3 del Decreto Legislativo 109/98, modificato dal Decreto Legislativo 130/2000). E malgrado anche che i Difensori Civici di molte regioni abbiano dato ragione ai disabili gravi e alle loro famiglie che protestavano per interpretazioni difformi.
E l’assistenza? Non viene fornita in maniera neppure vagamente adeguata ed è di solito la prima ad essere tagliata quando ci sono ristrettezze di bilancio. Poche ore per pochi giorni alla settimana, prestata spesso da personale non qualificato. Talvolta, poi, neppure quella…
E per i genitori che invece l’assistenza sono obbligati a prestarla davvero? Oltre ai due anni di congedo parentale e ai permessi orari della 104/92, nulla. Sono stati prepensionati lavoratori di svariate categorie, ma non quelli che svolgono il più usurante dei lavori, essere cioè genitori di un disabile grave e assisterlo direttamente al proprio domicilio.
Tante proposte, in questo ambito, alcune realistiche altre meramente elettorali, ma ancora nessun provvedimento che abbia prodotto effetti concreti. Anche se due progetti di legge presentati proprio nei giorni scorsi lasciano intravedere una possibile lontana soluzione.
Né viene concessa alle famiglie con disabilità un’adeguata compensazione fiscale alle spese sostenute. Viene da piangere a leggere di riduzioni fiscali di 1.000-2.000 euro all’anno, quando ci sono famiglie che spendono questa cifra in una settimana…
E i genitori che abbandonano il lavoro per assistere il figlio disabile? Abbiamo calcolato diminuzioni della capacità di reddito della famiglia fino a 500.000 euro in dieci anni.
E la scuola, cosa “non fa” la scuola? Sovente non ha i mezzi e qualche volta la capacità di rendere reale ed efficace quel diritto all’integrazione che è un po’ la bandiera della legislazione a favore dell’handicap. E così, invece di sventolare ben alta, questa bandiera rimane spesso tristemente attaccata all’asta delle mancate ore di sostegno, della mancata specializzazione di chi il sostegno lo fornisce, della mancata presa in carico globale da parte di tutti gli insegnanti. E gli studenti con disabilità crescono di numero e avanzano di livello e di istruzione. Fino a qualche decennio fa si trovavano quasi esclusivamente nelle scuole materne e nelle elementari. Oggi sono nelle superiori, nell’università e aumentano sempre più, assieme ai loro problemi.
E dopo la scuola? Il buio totale, finisce (quasi) tutto. Da adulto il disabile, specie se grave, è quasi completamente abbandonato. Pochissimi trovano un lavoro e per i più gravi vi è solo la prospettiva (oltre alla famiglia) di una “carcerazione a vita” in un istituto (ma non dovevano essere chiusi da anni?).
Il “dopo di noi”? Un posto ogni mille possibili fruitori, ben che vada…
Bisogna dunque suicidarsi? Eliminare con noi i nostri figli per eliminare il problema? No, non è certo questa la strada, anche se alcuni sono costretti a percorrerla.
Non l’eutanasia, non parliamone neppure. Tanto meno la bestiale “eutanasia pediatrica” che trasforma il medico-giudice in un “assassino” ed evoca ricordi tristissimi sepolti da sessant’anni di progresso civile (almeno lo speriamo!).
Ma l’aiuto, quello sì, assieme alla compartecipazione. Compartecipazione innanzitutto “esistenziale”. Fondamentale è non sentirsi soli, non dover portare tutto solo sulle nostre spalle. Avere dei compagni di viaggio. Qualcuno che ogni tanto sostenga un po’ un braccio della croce.
*Federazione Italiana ABC (Associazione Bambini Cerebrolesi).