Dove la disabilità è ancora una “maledizione del cielo”

Una bella iniziativa in espansione, tutta italiana, destinata alle persone con disabilità e alle varie categorie ritenute svantaggiate. Accade in Ruanda, Paese dell’Africa dove nascere con la sindrome di Down, ciechi o incapaci a qualche titolo di badare a se stessi è ancora sin troppo spesso considerato come una “maledizione del cielo”

Bimbi del Ruanda

Un gruppo di bimbi del Ruanda. Si stima che la guerra civile degli anni tra il 1990 e il 1993 e soprattutto il genocidio del 1994 abbiano causato, nel Paese africano, più di un milione di vittime

“Terzo Mondo” è una locuzione coniata nel 1955 per indicare i Paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina appena usciti dal colonialismo o in lotta per l’indipendenza. Nell’uso comune sono diventati i “Paesi poveri” del pianeta. Con il PIL (Prodotto Interno Lordo) cresciuto là dove non te l’aspettavi, Brasile e India sono entrati però nel “BRIC”, acronimo che con Cina e Russia designa le economie a maggiore sviluppo, e del Terzo Mondo non ci è rimasta che l’Africa. Quella nera delle guerre civili, delle dittature, della povertà, delle risorse sfruttate dagli altri e delle diverse religioni che si mescolano alle ancora radicate credenze popolari. Come si vive lì la disabilità? E se l’Italia fornisse il suo aiuto?

Siamo in Ruanda, repubblica presidenziale appena a sud dell’equatore, balzata alla cronaca nei primi Anni Novanta, per la sanguinosa guerra civile fra le due principali etnie nazionali (Tutsi e Hutu). La mattanza ha portato con sé pesanti contraccolpi psicologici, andando a peggiorare la condizione di salute di moltissimi e, dunque, ad incidere sulla disabilità. Le mutilazioni e i traumi fisici, poi, hanno fatto il resto. Ciò nonostante, questo tipo di disabilità è quello che spaventa meno. Il problema qui è nascere con la sindrome di Down, ciechi o incapaci a qualche titolo di badare a se stessi perché questo è segno di “possessione diabolica”. Nascere disabili qui è una “maledizione del cielo”.
Ce lo racconta Laura Riboni, docente di Biochimica all’Università di Milano, nonché volontaria del MoCI (Movimento per la Cooperazione Internazionale), un’organizzazione non governativa fondata nel 1985 a Reggio Calabria per la cooperazione e lo sviluppo nei Paesi dell’Africa subsahariana. «Quando – racconta la dottoressa -, nel 2003 a Nkanka, nella provincia di Cyangugu, il MoCI di Milano ha avviato il Centro Urugwiro (che nella lingua locale significa “tenerezza”), chi aveva una disabilità era tenuto nella foresta». Oggi, i villaggi come li intendiamo noi europei, con le capanne fatte di paglia, stanno scomparendo per legge, ma la foresta resta e le persone con disabilità stentano ad essere considerate di pari grado. La famiglia non le vuole, anche perché rappresentano un costo per le proprie già misere tasche. Inserire la persona nel tessuto sociale, perciò, spesso significa reinserire tutta la famiglia. Il Centro Urugwiro pensa anche a questo.
La struttura fornisce prestazioni sanitarie e soprattutto sociali. Negli anni ha assistito centosessantaquattro ruandesi disabili dai 6 anni in su. Per lo più persone con disabilità a livello mentale o con epilessia, oppure, in molti casi, con problemi di sordità, e quindi con gravi disagi motori e, infine, cieche. Maschi e femmine circa in egual misura.
Il Centro si compone di un edificio con quattro aule, una sala polivalente e servizi, mentre all’esterno ci sono campi per attività sportive e ricreative. Il personale viene reclutato sul posto e l’organizzazione è seguita da un’assistente sociale italiana pagata dal MoCi e, per la parte pensionistica, dalla CEI, la Commissione Episcopale Italiana.
I ruandesi del luogo devono molto al Centro perché è frequentandolo che possono accedere alla formazione scolastica, ai trattamenti sanitari, all’apprendimento di un mestiere nei laboratori di falegnameria, cucito e agricoltura nonché a un minimo di socializzazione. L’Italia, con tutte le sue carenze, al confronto è “un altro pianeta”.

Lì la questione delle barriere architettoniche – con le strade che nel periodo delle grandi piogge sono al limite della praticabilità – è un problema secondario. La “cassa mutua” è più urgente ed ecco che il Centro Urugwiro si è attivato per fornire piccoli crediti alle famiglie più povere. Queste usano le somme per comprare dei maiali che vengono venduti dopo la nascita dei cuccioli. In questo modo, con la vendita del maiale, estinguono il debito e si pagano l’accesso al servizio sanitario. I maialini, poi, vengono allevati anche grazie all’uso degli scarti del mulino presente nella struttura e così crescono con costi minimi. Inoltre, c’è il laboratorio di cucito, dove venticinque ragazzine, sottratte alla prostituzione e al disagio sociale (il Centro è destinato, oltre che alle persone con disabilità, a tutte le categorie considerate svantaggiate), che imparano un mestiere e cuciono gli abiti per il Centro. Tutto è improntato all’autosufficienza. La popolazione deve capire che tutti possono essere utili.
Il Centro Urugwiro, bella iniziativa in espansione, tutta italiana, è meta di visite di volontari da mezza Europa ed è indicato come traccia di riferimento in un Terzo Mondo ancora assai indietro rispetto alla nostra pur carente Italia. Paese che vai carenze che trovi.

Il presente testo è apparso anche in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “La disabilità nel Terzo mondo, qui Ruanda!”. Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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