Vivere e sopravvivere

«Ognuno dev’essere coerente con la propria scelta – scrive Rosa Mauro – e quindi, se l’Italia è determinata a tutelare la vita dei malati terminali, ebbene, questa dev’essere davvero vita e non sopravvivenza, con la garanzia di leggi e risorse destinate alla non autosufficienza e alla cura domiciliare». Una serie di riflessioni che prendono spunto dal recente rinfocolarsi dei dibattiti sul fine vita

Oriella Orazi, "Libertà costretta"

Oriella Orazi, “Libertà costretta”

In queste settimane si è tornati a parlare molto di malattie terminali, di vita e di… sopravvivenza. Persone più che autorevoli hanno fornito pareri autorevoli sulle modalità scelte per la gestione di questo delicatissimo momento nella vita individuale.
Non entro nel merito della mia personale visione di questo passaggio, anche perché non servirebbe. Qui, infatti, si parla di leggi e della loro interpretazione e quindi cominciamo con il vedere bene queste norme, che si differenziano per una scelta fondamentale: porre o non porre un limite alla sopravvivenza individuale, porre o non porre un limite alla sofferenza.

Recentemente, in Belgio, il Parlamento ha posto un proprio limite al controllo sulla vita dell’individuo. Sì, perché di questo si tratta: lo Stato permette all’individuo, di fronte a una vita che gli è intollerabile, minata da una malattia terminale e da una sofferenza insopportabile, di porre fine ad essa, con il controllo dei medici e il necessario supporto psicologico. Credo che non si tratti – come detto scorrettamente da alcuni – dello «Stato che pone fine alla vita individuale»: la scelta, infatti, è dell’individuo stesso.
In Italia, l’individuo malato o sofferente non può decidere nulla: è lo Stato – o meglio, sono i medici – a prolungarne la vita e la sopravvivenza finché il cuore non smette di battere, e/o l’elettroencefalogramma non registra una morte cerebrale.
Tornando però al Belgio, il motivo del contendere è stato soprattutto quello del voler estendere il diritto alla scelta ai ragazzi e ai bambini, scelta che l’Italia nega anche agli adulti.
Si ipotizza da più parti che i bambini non possano essere in grado di esprimere una libera volontà, e possano quindi essere “costretti” dagli adulti. Ma di quali adulti che possono decidere insieme al bambino, a un comitato etico, a medici e psicologi, parliamo? Dei genitori del bambino stesso, che a questo punto, dunque, da “stoici custodi” di un dolore profondo e permanente, testimoni spesso troppo silenziosi e silenziati di una sofferenza e di una morte ancor più inaccettabile, rischiano di diventare dei “moderni Erodi”. I bambini, invece, sia che siano grandicelli o minuscoli, acquisiscono solo il diritto a soffrire. Per quello sono grandi, mentre per decidere che è troppo, testimoniando il loro disagio agli adulti, non lo sono.
Anche in questo caso lo Stato – addirittura paragonato da alcuni zelanti editorialisti al Reich nazista – non c’entra, se non per fornire le tutele necessarie affinché si realizzi la volontà del malato.

Cosa succede, però, realmente in Italia? Nel nostro Paese, com’è noto, né i bambini né gli adulti hanno diritti sul loro fine vita e nel caso sciagurato in cui si ammalino gravemente, compromettendo in modo insopportabile la loro qualità della vita, è comunque obbligatorio che i medici li curino sino alla fine dei loro giorni, in quanto in nessuna circostanza la vita del paziente, oggetto e non soggetto di cure, può venire accorciata.
Ed è qui che a mio parere casca l’asino. Viste infatti le circostanze, ci si aspetterebbe a questo punto che in Italia la vita di questi malati, bambini e adulti, fosse gestita in maniera esemplare. Ci si aspetterebbero strutture perfette, dove la vita fosse degna di essere vissuta sino all’ultimo respiro. E pur non potendo mai alleviarne la sofferenza, i malati dovrebbero essere trattati in maniera da non pensare mai che il loro fosse un semplice sopravvivere, ma dovrebbero essere parte attiva di una vita sociale, affettiva e psicologicamente piena sino alla fine.
È  così? Naturalmente no. A Roma, ad esempio, è a serio rischio di chiusura la Casa di Peter Pan, che permette ai bambini con malattie oncologiche di trascorrere gli intervalli tra le chemioterapie in un ambiente vicino a quello di una vera e propria casa. In varie Regioni del Sud, poi, chiudono le cooperative che permettono l’assistenza domiciliare ai pazienti oncologici e anche a Roma l’assistenza domiciliare oncologica si ferma prima del fine vita, cosicché i malati finiscono comunque in strutture che sono “case della morte”, in alcune delle quali il disinteresse verso la persona è tale che egli non solo muore da solo, ma che solo dopo ore la famiglia viene avvisata del decesso.
Insomma, l’aiuto alle famiglie – di adulti e bambini – aiuto sia materiale che psicologico, per sopportare e alleviare il malato terminale, è pari a zero. E come ci hanno dimostrato chiaramente le recenti proteste dei malati di SLA [sclerosi laterale amiotrofica, N.d.R.], il malato non vive affatto: si limita a sopravvivere.
Qui mi scuso per il paragone sicuramente un po’ forte, ma questo mi ricorda tanto la situazione dei condannati a morte in molti Stati degli USA, che se si ammalano gravemente, vengono accuratamente curati, perché possano morire nel modo in cui lo Stato ha deciso per loro!

A mio parere, ognuno dev’essere coerente con la propria scelta e quindi, se l’Italia è determinata a tutelare la vita dei malati terminali, ebbene, questa dev’essere davvero una vita. I fondi per la non autosufficienza e per la cura domiciliare devono essere svincolati dal beneplacito del Ministero dell’Economia, le Regioni devono assicurare l’assistenza anche a costi di ridurre gli stipendi dei loro funzionari e di azzerare le consulenze.
Non una, ma più Case di Peter Pan dovrebbero garantire ai bambini la serenità durante le cure oncologiche e accompagnarli verso la fine nella miglior maniera possibile. Per questo, però, ci vogliono leggi e risorse, non parole scagliate contro l’alternativa, quella cioè di far smettere di soffrire quella persona, insieme a i suoi cari.
L’Italia brilla per l’assoluta mancanza di reale interessamento nei confronti dei malati terminali, a meno che essi non vadano, come quelli con la SLA, dei quali ho già detto, a rischiare di morire sotto il “Palazzo”, per esprimere le loro ragioni.
E tuttavia, di fronte a una parola come eutanasia, spesso ampiamente strumentalizzata – e, spiace dirlo, anche da confessioni religiose che vedono nell’uomo un “oggetto” e non un “soggetto” – il nostro Paese si erge in piedi per giudicare e, quasi sempre, per condannare.
Invece siamo proprio gli ultimi a poter parlare e inviterei chi lo fa – se è una persona davvero autorevole, in grado di spostare equilibri e cambiare leggi – a parlare meno e ad agire di più, intervenendo pesantemente sui Governi e su quanti possono e devono garantire all’individuo la vita migliore, compatibilmente con le circostanze.

E se, nonostante gli sforzi, io non posso più comunicare, sentire, gustare della vita? Se per me si apre un universo di intollerabile sofferenza e frustrazione? Allora si cerchi di non trattarmi come un condannato a morte di cui scegliere il “giorno dell’esecuzione”: mi si tratti come un individuo che ha diritto a vedere abbreviata la sua tortura, a scegliere anche – in casi estremi – di terminarla. Che sia io o chi può interpretare i miei pensieri, perché mi ha portato in grembo per nove mesi, perché mi ha aspettato, amato, curato. Chi sta al mio capezzale ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.
Un  bambino che non può più correre, ridere, o giocare, che non può fare altro che ascoltare una dolorosa flebo scorrere, a volte senza nemmeno più percepire ciò che gli sta intorno, ha già perduto la sua vita. Un bambino prematuramente “crocifisso” non può dire di avere una vita, lo sente lui, e lo sentono i suoi genitori. Basterebbe una camera allegra, con carta da parati e un lettino. Una sedia a dondolo per la mamma, e la possibilità di abbracciarlo senza tubi e respiratore. E se non si può o non si può più…

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