La disabilità, terribile lente d’ingrandimento

Di fronte alla notizia che la condanna a morte per impiccagione in Pakistan di una persona in carrozzina è stata bloccata per il fatto che quella persona non è in grado di salire con le proprie forze il patibolo e che tuttavia quest’ultimo verrà reso accessibile, «la disabilità – scrive Simonetta Morelli – appare ancora una volta come una lente d’ingrandimento delle storture della nostra civiltà, rendendo ancor più urgente una nuova e forte riflessione sulla pena di morte»

Persone nella semioscurità, tra cui anche una in carrozzinaÈ stata data dal blog Le persone e la dignità – spazio dedicato ai diritti umani, frutto della collaborazione tra Amnesty International e «Corriere della Sera» – la notizia della prossima esecuzione per impiccagione di un uomo pakistano accusato di omicidio. Abdul Basit, condannato nel 2009, ha però contratto la meningite tubercolare nel 2010, oggi è in sedia a rotelle e non è in grado di «salire il patibolo con le sue forze», come prevede il regolamento generale penitenziario. Ne è seguita una disputa giuridico-amministrativa che ha bloccato fin qui l’esecuzione. Purtroppo, però, una ricerca particolarmente accurata ha permesso ai funzionari pakistani di verificare che quel medesimo regolamento autorizza comunque l’esecuzione dei condannati in sedia rotelle e dallo sconcerto si passa all’orrore, se si immagina che, per eseguire la condanna bisognerà rendere accessibile il patibolo. E in cosa consisteranno, materialmente, le modifiche perché il condannato sia in grado di «salire il patibolo con le sue forze»?
C’è sempre una componente “estetizzante” nella morte di Stato (e nel suicidio): basta fare un giro su internet, alla voce Impiccagione, per scoprire un mondo. Se poi si tratta di una persona con disabilità il piatto della speculazione si fa particolarmente succulento.

Riflettiamo. Nessun dubbio che la condizione di disabilità non giustifichi i reati e non consenta facili assoluzioni. Ma se la disabilità del condannato è una barriera alla volontà di morte dello Stato, lo sconcerto prende il sopravvento.
La disabilità appare, ancora una volta, come una lente di ingrandimento delle storture delle nostre civiltà e urge ancor più una nuova e forte riflessione sulla pena di morte, perché la condanna inflitta da un tribunale può anche avere carattere punitivo, ma non può essere un luogo di speculazione sulle tecniche di morte che, se applicate a una persona con disabilità, devono essere necessariamente più raffinate.

Da questi orrori, per altro, non sono esenti nemmeno Stati evoluti come il Giappone e gli Stati Uniti, se hanno potuto evadere gli standard internazionali sulla pena di morte, che impediscono di eseguire la condanna su chi ha una disabilità mentale e intellettiva. Quanto al Pakistan, aveva ratificato il 5 luglio 2011 la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che – com’è ben noto – è tutta un richiamo ai Diritti Umani, alla loro Dichiarazione Universale e ai Patti Internazionali che legano gli Stati ad essi. E aveva anche applicato la moratoria sulla pena di morte, annullata dopo sei anni a causa della famigerata strage di bambini di Peshawar, lo scorso anno, per mano talebana (ne morirono 132). È quanto meno paradossale, tuttavia, che da allora si sia verificato un ricorso smisurato alla pena capitale nei confronti di tutti i cittadini, compresi i minori. Sono infatti 200 le condanne eseguite e ben 8.500 in attesa di esecuzione.

A cosa fare riferimento allora se non alla pietà? In questo ribaltamento del concetto di giustizia che è la pena di morte, la pìetas, nell’accezione alta di rispetto per l’umanità altrui, assume il valore di veicolo di giustizia da cui non si può prescindere se al centro del dibattito universale sul superamento di ogni condizione di svantaggio c’è la salvaguardia della dignità delle persone.
Quella mancanza di considerazione sul rispetto dell’uomo per l’umanità altrui è la cartina di tornasole che svela le intenzioni di chi traveste da dovere ciò che è solo gratuita crudeltà.
A noi che inorridiamo delle scelleratezze altrui (e poco delle nostre), resta sempre l’onere dell’approccio corretto a tutte le persone diverse, soprattutto se con disabilità o se vittime di uno svantaggio sociale. Proprio per via di quella pìetas che non è buonismo né radice dello stigma, quanto piuttosto antidoto al cinismo diffuso che pervade e caratterizza il nostro tempo.

Testo già apparso – con il titolo “Disabilità: quale dignità nella pena di morte” – in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it». Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.

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