Bello non sentirsi più solo una “regola da rispettare”!

Ciò che solo una ventina d’anni fa poteva sembrare ancora “fantascienza”, oggi succede. E così per la prima volta, almeno in Italia, un gruppo di celebri architetti si siede attorno a un tavolo, con il dichiarato intento di progettare realmente per tutti. «Il pensiero di non essere più visto come una “pura regola da rispettare in qualche maniera” per ottenere una licenza edilizia – scrive Antonio Giuseppe Malafarina -, bensì un fruitore al pari degli altri e su cui costruire, credo rappresenti una svolta nel modo di progettare»

Logo di "Archidiversity"

Il logo del Progetto “Archidiversity”

Anche le archistar – leggi gli architetti famosi – hanno un cuore. Se non tutte, quelle di Archidiversity sì, un progetto dai nomi luccicanti: si va da Stefano Boeri ad Antonio Citterio, da Matteo Thun a Paolo Brescia a Michele De Lucchi e ad altri ancora, passando per Luigi Bandini Buti, il padre dell’ergonomia in Italia e del design for all nostrano [il “design for all” è la “progettazione universale”, N.d.R.] – di cui ho già avuto modo di scrivere su queste stesse pagineGiulio Ceppi, sublime docente e innovativo architetto, e Rodrigo Rodriquez, un curriculum da paura che annovera Cassina, Flos, Material ConneXion Italia, Fondazione Fiera Milano… Tanta bella gente per tanta bella roba.

Lo ammetto, quest’idea mi affascina. Il pensiero che io non sia più visto come una “pura regola da rispettare in qualche maniera” per ottenere una licenza edilizia, bensì un fruitore al pari degli altri e su cui costruire, secondo me rappresenta una svolta nel modo di progettare.
Non è la prima volta che gli architetti si accostano al mondo del design for all, perché Archidiversity in questo consiste, ma è la prima volta che un gruppo di celebrità del tecnigrafo si siede attorno ad un tavolo con il dichiarato intento di progettare in questo modo. Almeno in Italia.
Ciò detto, che fanno in concreto tutti questi nomi attorno al tavolo? Il loro mestiere: progettano. Da un’idea di Giulio Ceppi, Rodrigo Rodriquez e Luigi Bandini Buti, si sono tirati in ballo alcuni grandi nomi dell’architettura, per «realizzare varie tipologie architettoniche fruibili dalle persone con esigenze e abilità diversificate, coinvolgendo la diversità umana nel processo progettuale». In pratica si costruisce secondo i paradigmi del design for all, che nel marchio di qualità Design for All (DfA) ha la sua massima espressione.

Nove architetti, ovvero studi di architettura, su nove distinti piani di grande interesse, fascino e prestigio. L’elenco si può consultare direttamente in Archidiversity e fra questi cito a memoria il rifacimento della zona portuale dell’Isola della Maddalena, gli spazi d’accoglienza dell’aeroporto di Doha, la terrazza della Triennale a Milano e la riqualificazione del giardino di Villa Manzoni a Lecco.
Di nuovo, o più semplicemente d’avanguardia, non c’è solo l’approccio progettuale, di cui un primo assaggio si può ascoltare dalle parole di Stefano Boeri nel sito, ma il modello professionale di tutto l’impianto. Da una parte gli architetti che si incontrano e scambiano idee per poi lavorare in autonomia, o con l’appoggio di esperti di design for all, e dall’altra la volontà di promuovere questa esperienza in un sito dove è possibile constatare la fase di avanzamento dei lavori. E poi eventi, il video delle cinque storie più esemplari, una mostra presso la Fondazione Riccardo Catella di Milano e altro ancora, fino a una presentazione che si terrà alla prossima XXI Triennale del capoluogo lombardo.

Per comprendere meglio ciò di cui stiamo parlando, ho indossato la veste del giornalista puro e ho fatto qualche domanda ai diretti interessati.
Ad Antonio Citterio, che sta lavorando sull’aeroporto di Doha, ho chiesto cosa differenzi l’applicazione dei criteri del design for all fra un luogo come il Qatar e l’Italia, ed ecco la sua risposta: «Il Qatar è una nazione giovane, in continua trasformazione, che sta completando solo ora le sue infrastrutture strategiche. Applicare i criteri del design for all significa prima di tutto confrontarsi con una realtà culturale e demografica del tutto differente dalla nostra, quindi comprendere quale sia lo scenario normativo di riferimento».
Dunque mi sono spinto oltre chiedendo nello specifico quale sia lo sforzo realizzativo per andare incontro alle persone con disabilità, e la risposta è stata: «Il rispetto di determinati standard architettonici per l’accessibilità è un argomento scontato anche in una nazione giovane come il Qatar; ben più complesso è il lavoro che attende il progettista che affronta in quella regione i temi della multiculturalità e del vivere uno spazio 24 ore su 24».

A Paolo Brescia, dello studio Obr, che ha lavorato alla realizzazione della terrazza sulla Triennale a Milano, ho domandato invece quanto i criteri del design for all rappresentino un valore aggiunto nell’aggiudicarsi una commessa e la risposta è stata: «Noi siamo il contrario dello standard e quando dico noi intendo ognuno di noi. Tutti, infatti, siamo diversi a modo proprio. Personalmente credo che si dovrebbe parlare di design for each, ovvero di “progettazione per ognuno di noi”. Se sapremo valorizzare le diversità di ognuno, allora terremo insieme tutti. Il fenomeno che stiamo registrando negli ultimi anni è la presa di coscienza delle diversità come valore. E questo è il valore che fa la differenza».

Spazio quindi a Rodrigo Rodriquez, cui chiedo di parlare del rapporto fra omologazione e personalizzazione e lui mi risponde: «Questa domanda mi induce a constatare come da qualche tempo sia in corso un desiderio di allontanarsi dall’omologazione, una graduale evoluzione dalla produzione di massa, che aveva avuto il merito di fare accedere fasce di reddito modesto al possesso di beni di consumo e servizi molteplici. Oggi esistono gli autoproduttori e il design for all. Dobbiamo comprendere che la diversità umana è una risorsa e approda nel progettare manufatti ed ambienti per migliorare la qualità della vita degli individui valorizzando le loro specificità».

A questo punto dovrebbe essere chiaro che cosa sia Archidiversity e a che cosa punti. Non mi resta quindi che appropriarmi delle parole di Paolo Brescia: «È come viviamo che determina l’abitare, non come abitiamo che definisce il vivere. Io voglio essere il soggetto del mio modo di abitare, e non l’oggetto di un modello abitativo precostituito. Sono le diversità che ci tengono insieme, se condividiamo gli stessi valori».

Piccolo ricordo personale. Una ventina d’anni fa, in tempi ormai “preistorici” di fronte alla rapidità dei cambiamenti sociali, tentai di intervistare alcune “archistar” di quel momento – tra gli altri Aulenti, Botta, Piano – per parlare di accessibilità, con domande tipo: «Sarà possibile a persone con disabilità motoria l’accesso a edifici storici di cinquecento anni fa, nati inaccessibili per definizione?». Nessuno rispose… Sì, effettivamente qualcosa è cambiato. (Stefano Borgato)

Testo già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Le diversità ci tengono insieme, parola di archistar”, e qui ripreso con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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