E se la cultura della disabilità diventasse materia scolastica?

«A volte qualcuno dice che la danceability – scrive Juri Roverato, noto soprattutto, ma non solo, per il suo percorso in questa specifica tecnica di danza – dovrebbe diventare una materia scolastica e un bagaglio di vita per ogni persona. Sì, è vero, ma, secondo me, la cultura della disabilità dovrebbe diventare un bagaglio di vita e una materia scolastica, ma non a parole, a fatti. Dal vedere il disabile in pizzeria, ma non perché è disabile, bensì perché è persona, al vedere che si costruisce senza barriere»

Juri Roverato e Simona Torelli in "Alovaf. Favola al contrario"

Juri Roverato insieme a Simona Torelli, durante la rappresentazione del loro spettacolo “Alovaf. Favola al contrario”

Ormai per me è difficile dire qualcosa di nuovo sulla danceability*, sono sedici-diciassette anni che, di getto o perché mi viene richiesto, scrivo qualcosa su questa tecnica, su quello che a me ha apportato, sui tanti corsi che ho condotto e conduco, sugli innumerevoli spettacoli messi in scena per una sera, con tante ore di lavoro dietro, e poi lasciati alle tinte sbiadite dei ricordi delle persone che erano presenti.
Onestamente non sono nemmeno più convinto di proporre e condurre corsi di danceability, sono una persona molto “inquinata” dalla vita, da altre tecniche, dalle emozioni e, negli ultimi anni, dalle persone con cui lavoro mi sono trasformato, adeguato, rivoluzionato; una musica sentita per caso ha aperto nuove idee, un movimento di una persona ha creato uno spettacolo, una parola detta senza darci troppo peso è diventata filosofia di vita.
Da un paio di giorni una persona mi ha detto che la danceability è un modus vivendi, basta un corso per farti cambiare prospettiva di vita, modo di pensare, modo di ascoltare, modo di relazionarsi, di considerare le persone disabili e di accorgersi che alla fine una mia frase stupidissima del 2001 è realissima, «Tutti siamo abili, tutti siamo disabili, perché tutti siamo uomini».

Dall’ultima massima, forse, si capisce che ho una concezione particolare della “disabilità” e della “normalità”: per me sono categorie che non esistono, perché ogni persona ha una o più disabilità e spesso quelle che non si vedono sono più “invalidanti” di quelle che si vedono.
Non è un caso che quando conduco dei corsi con qualcuno considerato “normodotato”, faccio la presentazione scema, dicendo «Lui/lei è il/la disabile ed io, affetto da tetraparesi spastica, sono l’abile». È sicuramente una provocazione, ma ha un fondo di verità, perché io sono convintissimo che tutti abbiamo dei problemi e tutti delle risorse che altri non hanno.
È questo il motivo per cui spesso dico che ogni persona è unica e speciale e ha qualità che gli altri non hanno: persone in situazioni gravissime hanno una sensibilità e dei canali di ascolto che altri nemmeno immaginano siano umani, mentre, spesso, le persone considerate “normodotate” sono appunto normodotate, non eccellono in nulla, hanno una vita “normale” o forse anche “normalmente noiosa”.
Lo so, provoco, sono un provocatore nato, però sono stanco dei canoni propinati da tutti, la vita vera è altro, non è solo bellezza, sorrisi e pubblicità, la vita vera è spesso fatica, tristezza e arrabbiature, ma… se io trovo degli attimi di bellezza, sorrisi e pubblicità all’interno di fatica, tristezza e arrabbiature, secondo me, sto facendo un grande passo in avanti.

Per me la danceability è proprio quell’attimo di luce nel buio, di sorriso nella tristezza, di normalità nelle disabilità, di disabilità nella normalità.
A volte qualcuno dice che la danceability dovrebbe diventare una materia scolastica e un bagaglio di vita per ogni persona. Sì, è vero, ma, secondo me, la cultura della disabilità dovrebbe diventare un bagaglio di vita e una materia scolastica, ma non a parole, a fatti. Dal vedere il disabile in pizzeria, ma non perché è disabile, bensì perché è persona, al vedere che si costruisce senza barriere.
Si parla sempre di abbattere le barriere, ma… perché quando costruiamo, continuiamo a farlo con le barriere? Non è più facile agire a monte e costruire senza barriere per tutti? Si parla sempre di pari opportunità e poi qualcuno dice: «Ma cosa vogliono i disabili?»; però… pari opportunità valgono per tutti.
Credo che l’aria nuova portata dalla danceability si possa estendere alla vita di tutti i giorni. Proviamo a vedere il disabile non solo come peso, ma anche come risorsa produttiva, se messa nelle condizioni di produrre e di fare ciò che sa fare meglio, ognuno nel suo piccolo, ognuno nel suo grande, magari davvero riusciamo a creare un Mondo migliore per tutti.

*Tecnica che utilizza i princìpi della cosiddetta Contact Improvisation, nata negli Stati Uniti all’inizio degli Anni Novanta, grazie all’impulso del danzatore e coreografo Alito Alessi, direttore della Joint Forces Dance Company di Eugene (Oregon), la danceability – della quale «Superando.it» si è più volte occupato – ha sostanzialmente lo scopo di rendere accessibile il linguaggio della danza a tutte le persone. Si tratta infatti di un’esperienza vissuta insieme da persone con disabilità e non, per vivere esperienze di reciproca uguaglianza, basate sulla fiducia reciproca, la fluidità e l’equilibrio, in un dialogo fisico in cui tutti i sensi siano coinvolti.

Insegnante e danzatore. Roverato è molto noto, in Italia e all’estero, soprattutto, ma non solo, per il suo percorso nella danceability.

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