Il coraggio di affrontare una “normale disabilità”

«Siamo individui – scrive Pietro Pellillo – che alle quotidiane difficoltà della vita e a quelle imposte dalla società, ci dobbiamo accollare quelle di una mente o di un corpo malato, di barriere create dalla società (non sempre volutamente, ma volutamente non risolte), di famiglie costrette ad enormi sacrifici. È proprio questa, paradossalmente, la “normalità della disabilità”. E tutto l’amore, l’infatuazione e l’attaccamento per la nostra vita deve purtroppo quotidianamente fare i conti con barriere insormontabili ed emolumenti pensionistici che rasentano l’elemosina»

Sia da atleta sia poi da dirigente ho voluto aiutare questo movimento a uscire da quell’angolo di pietismo nel quale eravamo cacciati. Eravamo cacciati in quell’angolo dall’incultura, dalla non cultura dell’epoca, dalla distrazione, dal disinteresse dei media, dagli atteggiamenti solidar-pietistici dalla gente. Meritavamo quel rispetto che ci siamo conquistati faticosamente sul campo
(Luca Pancalli – Presidente del CIP-Comitato Italiano Paralimpico)

Medardo Rosso, "Malato all'ospedale", circa 1889

Medardo Rosso, “Malato all’ospedale”, circa 1889

Sono un grave disabile affetto da SLA (sclerosi laterale amiotrofica) di poco più di 76 anni e vivo in questo recondito scenario che è la città di Roma. Nella mia esperienza personale, tra i primi 45 anni di normalità e questa seconda parte dell’esistenza di grave disabilità, tale malefica compagna mi ha costretto e continua a costringermi sempre più alla necessità di assistenza continua, inducendo il mio sventurato corpo a non essere in grado di compiere gli atti quotidiani della vita. E sì che vestirsi, lavarsi, mangiare, bere, soddisfare le proprie necessità fisiologiche e tanto altro sono atteggiamenti totalmente normali. Ma tant’è che se io non avessi l’amore, l’attenzione, la vicinanza e il sostegno di mia moglie, certamente non potrei vantare quella stessa dignità di vita che posso vantare ora e tali atteggiamenti di normalità ordinaria diverrebbero per me di grottesca straordinarietà.

La mia vita ha incrociato questa SLA creando una situazione da me non cercata, non voluta, non sperata, mai auspicata. È piovuta addosso inaspettata, senza criterio né regole. E il bello è che sicuramente non potrò mai divorziare da essa. Esula completamente dalla mia volontà e dalla mia realtà. Ho il costante terrore nel vedere riflessa la mia immagine, tanto che i miei stessi occhi vorrebbero nasconderla.
Non si può comprendere, se non vivendolo, che il nostro totale terrore, pur se terreno, è appunto che di fronte al capolinea motorio la mente possa affievolirsi e arrendersi all’insormontabile blocco fisico “perché è troppo doloroso”. E in questa parossistica visione, è grottesco vedere esseri umani che immobilizzati, terrorizzati e che non possono nutrirsi autonomamente, sono costretti spesso a farsi oggetto della cronaca, con gesti talvolta anche eclatanti, per ribadire il proprio diritto alla vita, come in un diabolico affresco.
E noi, se non avessimo l’affetto, la vicinanza, l’amore dei nostri familiari e di quelli che con abnegazione si impegnano per noi, certo non sarebbero né la società né lo Stato a permetterci di condurre una vita che possa soltanto definirsi tale.

Mia moglie da più di trent’anni ormai deve provvedere alle mie necessità. E lo fa con tanto amore e soprattutto con tanta discrezione da far sembrare normale il supportare totalmente e quotidianamente un gravissimo disabile, tanto da doversi muovere sempre per due. Questa stessa moglie che, ora anche lei colpita da una grave malattia, per cui ha dovuto sostenere pesanti cicli chemioterapici e un autotrapianto di cellule staminali, deve tuttavia continuare a sostenermi sempre e comunque.
Ma ciò che mi ferisce e dove mi sento di “urlare”, non è tanto l’essere catalogato come “non normale”, quanto nel sentirmi circondato da sguardi e atteggiamenti ipocriti, funzionali solo ad acquietare l’altrui coscienza. In ciò mi viene da riflettere sul frenetico movimento di idee, opinioni, valutazioni e quant’altro, che nei “salotti culturali” anima le nostre esistenze, circa l’esatta terminologia linguistica del nostro stato di disabilità. Con l’implicazione a volte diretta, altre indiretta, di personaggi sportivi e artisti con disabilità, che purtroppo, però, rappresentano una unicità. Come se per parlare del consesso umano, si parlasse solo delle molto sparute persone che eccellono nei vari campi umani, tralasciando la restante moltitudine.
Sono un disabile e come tale voglio (come diritto) essere considerato per quello che sono e non per come gli altri mi possano o mi vogliano vedere. Chiamatemi “disabile”, “diversamente abile”, “handicappato” (sono parole), ma ciò che mi ferisce profondamente è essere nascosto, compatito, inascoltato o peggio ascoltare la Norma che parla e pontifica sulla “Dis-Norma”, senza averne le sensibilità e l’emotività. Infatti, le vite, le azioni e le vicende di persone con disabilità che escono dall’ordinario, narrate e rappresentate sia a livello istituzionale che da parte dei media, delle TV generaliste e di altri organi d’informazione, si incentrano quasi sempre, malauguratamente, su chi rappresenta una “specificità nella disabilità”, come a dimostrare proprio l’eccezionalità nella disabilità stessa.
La continua e sola rappresentazione di limiti estremi ad opera di sportivi con disabilità, di specificità di artisti con disabilità e altro ancora, certo, mi confortano, mi inorgogliscono e mi suscitano grande e profonda ammirazione per tutte le capacità che queste persone riescono a mettere in gioco. Tuttavia non possiamo, non dobbiamo mai dimenticare che dette capacità non sono solo frutto di ferma volontà e coraggio, ma anche di attenzioni particolari e continue riservate a pochi, di non assillanti preoccupazioni economiche, di possibilità di continua assistenza e di protesi molto costose perché studiate e fatte su misura. E questo nel mondo della disabilità nessuno se lo può permettere. Anzi. Perciò la frequente rappresentazione di amici con disabilità che esulano da una “normale disabilità”, con l’intenzione di dimostrare che anche la persona con disabilità può raggiungere traguardi impensabili e insperati e che tutto è solo questione di volontà e coraggio, mi pone delle perplessità e mi crea profondo imbarazzo.

Siamo individui che alle quotidiane e a volte spregiudicate difficoltà della vita e a quelle imposte dalla società, ci dobbiamo accollare quelle di una mente o di un corpo malato, di barriere create dalla società (non sempre volutamente, ma volutamente non risolte), di famiglie costrette ad enormi sacrifici. È proprio questa, paradossalmente, la “normalità della disabilità”. Mi piacerebbe proprio non vedere più “la diversità nella diversità”. E tutto l’amore, l’infatuazione e l’attaccamento per la nostra vita deve purtroppo quotidianamente fare i conti con barriere insormontabili, emolumenti pensionistici che rasentano l’elemosina (nel senso letterale), la necessità di chiedere sempre, perché ci sia concesso il dovuto, e di dimostrare sempre e comunque la nostra disabilità, l’essere additati e non essere rispettati nella nostra dignità e soprattutto essere lasciati a noi stessi senza quel supporto indispensabile alla Dignità di Vita.
L’unica spiaggia è rappresentata solo sempre e comunque dall’amore e compassione dei nostri familiari. E tralasciando le definizioni qualunquistiche e grottesche, mi batto e sempre mi batterò con tutto me stesso per evitare la “mitizzazione dello straordinario”, partecipando, intervenendo e diventando di contro ordinari protagonisti nella normale, quotidiana realtà di vita.

Noi, in quanto esseri umani, abbiamo diritti primari che non è lo Stato a dover attribuire; parliamo di diritti naturali che, in quanto tali, sottendono prerogative umane insopprimibili che lo Stato deve solo riconoscere e non concedere. Sono i diritti che nascono con l’uomo e con lui muoiono, costituendo la garanzia vitale dei beni insostituibili e inalienabili della vita, dell’integrità fisica e psichica, dell’uguaglianza e della libertà, della vita stessa.

Grottesco aspetto, infine, è la consapevolezza delle possibili azioni che possono essere intraprese nel percorso della nostra malattia. Io, malato di SLA e grave disabile inserito anni addietro nel percorso terapeutico del Policlinico Gemelli di Roma (Neurologia) ed ora nel Centro SLA dell’Ospedale San Camillo (Neurologia), dico e affermo che nell’arco di ventisette anni mai sono stato chiamato e contattato per controlli o piani terapeutici, né per aggiornamenti e/o informazioni circa possibili agevolazioni. Le poche visite specialistiche effettuate sono state e sono dovute solo alla frenetica attività di mia moglie. Al contrario, se avessi primeggiato in qualche attività, la mia vita di disabile sarebbe stata sicuramente molto facilitata. Per non parlare della mia autonomia dal punto di vista economico, percependo una buona pensione da lavoro e non la miseria che lo stato elargisce.
Per questo ho vissuto e vivo un’esperienza e una sensazione ineffabile.

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