“Genere e disabilità”: non un tema, ma una prospettiva

«Occuparsi di genere e disabilità – scrive Simona Lancioni – è bello, perché fare cose che la coscienza morale considera buone e giuste, oltreché suscitare un’adesione spontanea, richiama anche un’idea di bellezza. Ma è anche frustrante perché, almeno in Italia, il fenomeno delle discriminazioni multiple che colpiscono le donne con disabilità viene trattato come un tema da sviluppare in questo o quel progetto, e non come una prospettiva in cui incorporare tutti gli sforzi tesi a promuovere il pieno godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità»

Donne con diverse forme di disabilità

Donne con diverse forme di disabilità

Diciamoci la verità, occuparsi di genere e disabilità è molto bello, ma spesso abbastanza frustrante.
È bello perché fare cose che la coscienza morale considera buone e giuste, oltre che suscitare un’adesione spontanea, un senso di doverosità liberamente scelto, richiama anche un’idea di bellezza.

La tesi che l’etica abbia qualche connessione con l’estetica non è certo nuova. Hannah Arendt (1906–1975), politologa e filosofa tedesca naturalizzata statunitense, ad esempio, osservava che coloro che si opposero al Nazismo non furono mossi in primo luogo dal senso del dovere, ma risposero ad un sentire più immediato e profondo, in qualche modo connesso al gusto estetico.
La filosofa esemplifica questo concetto spiegando che costoro «non sentirono in se stessi un’obbligazione, ma agirono semplicemente in accordo con qualcosa che per tutti loro era autoevidente, benché non fosse più autoevidente per gli altri. La loro coscienza, se di questo si trattò, non parlò in termini di obbligazione, non disse loro “questo non devo farlo”, ma semplicemente: “questo non posso farlo”» (H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale [1966], traduzione di Davide Tarizzo, Einaudi, 2006, pagine 35-36, passaggio citato in Vito Mancuso, Etica per giorni difficili, Garzanti, 2022, pagina 269). In altre parole, per Arendt, chi non aderì al Nazismo non lo fece prioritariamente per senso del dovere, ma per il disgusto che l’adesione alle pratiche di violenza sistemica poste in essere dal Nazismo stesso suscitava in loro. Non che perseguire cause etiche non susciti anche un senso di doverosità, ma probabilmente il gusto – gradevole o sgradevole – ci cattura prima.
Credo che questa considerazione sia profondamente vera, e credo anche che chi sposa la causa del genere e disabilità, o altre cause etiche, lo faccia anche perché pensa che sia bello farlo.

Poi, però, è anche un po’ frustrante perché, almeno qui in Italia, il fenomeno delle discriminazioni multiple che colpiscono le donne con disabilità viene trattato come un tema da sviluppare in questo o quel progetto, in questa o quella iniziativa, di cui però ci si scorda quando si passa ad altri progetti e ad altre iniziative. Le iniziative e i progetti in questo àmbito vanno benissimo – molte grazie a chi li promuove e ci investe –, la questione però è che “genere e disabilità” non è un tema ma una prospettiva, e se non ci disponiamo in questi termini ci perdiamo una gran quantità di bellezza.

Che “genere e disabilità” non sia un tema, ma una prospettiva, si desume in modo inequivocabile da un passaggio del Preambolo della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità nel quale si sottolinea «la necessità di incorporare la prospettiva di genere in tutti gli sforzi tesi a promuovere il pieno godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità». La qual cosa, tradotta in parole povere, vuol dire che qualunque politica o iniziativa venga intrapresa riguardo alle persone con disabilità deve incorporare anche il genere, e qualunque politica o iniziativa riguardante le donne deve integrare la disabilità.
Questa interpretazione è stata confermata anche dal Commento Generale n. 3 pubblicato nel 2016 dal Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, proprio per dare agli Stati che hanno ratificato la Convenzione indicazioni su come applicare le disposizioni relative al genere in essa contenute.

Dunque la domanda è: cosa possiamo fare per far sì che la causa “genere e disabilità” venga finalmente trattata come una prospettiva?
Senza avventuraci in risposte cervellotiche, potremmo provare ad associare “genere e disabilità” ad un altro concetto che invece è già percepito come una prospettiva. Quale? Proporrei l’accessibilità, perché anche i/le più sprovveduti/e sanno che qualunque intervento di qualunque àmbito riguardi le persone con disabilità (scuola, lavoro, sanità, assistenza, politiche abitative, sport, tempo libero ecc.) non può prescindere da una riflessione sull’accessibilità. E, parimenti, anche le pari opportunità di genere sono comunemente declinate in termini di accessibilità: si parla infatti di accesso egualitario all’istruzione, al lavoro, ai servizi sanitari o d’altro tipo ecc. Ma come possiamo rafforzarla quell’associazione? Collegandola con un’immagine gradevole. Ad esempio, possiamo immaginare, in modo figurato, che i due concetti “accessibilità” e “genere e disabilità” siano legati insieme da un fiocchetto rosso, e che quando viaggiano se ne vadano a spasso insieme. È un’associazione bizzarra, ne convengo, ma proprio per questo potrebbe funzionare: un’immagine fuori dall’ordinario si ricorda più facilmente di un’immagine comune. Inoltre un fiocchetto rosso di solito è percepito come esteticamente gradevole, e pertanto è adeguato a evocare l’estetica dell’etica. In ogni caso l’immagine è solo un rafforzativo, chi ha altri sistemi per ricordarsi le cose può tranquillamente servirsi di questi: alla fine si tratta semplicemente di tenere presente che quando su parla di accessibilità, questa va sempre declinata sia in termini di genere che di disabilità.

Perché penso che possa rivelarsi più proficuo promuovere una causa come quella del “genere e disabilità” richiamandosi all’etica – o meglio all’estetica dell’etica – piuttosto che, ad esempio, al diritto (senza, ovviamente, sminuire la rilevanza di quest’ultimo)? Intanto perché, come accennato, la gradevolezza ci cattura prima e di solito arriva più in profondità della razionalità: aderire a qualcosa perché piace e se ne comprende la giustezza solitamente risulta più spontaneo e semplice che farlo per osservare un obbligo giuridico. In secondo luogo perché l’adesione spontanea riduce la necessità di far ricorso alla forza e instaura un clima collaborativo, cosa più funzionale a promuovere una causa etica rispetto all’approccio impositivo, anche se quest’ultimo non è da escludere, giacché non tutte le persone sanno cogliere la bellezza delle cose giuste e la giustizia va comunque tutelata.

Ma c’è anche un ulteriore elemento. Ogni tanto chi scrive richiama l’attenzione sul fatto che l’associazionismo delle persone con disabilità e quello femminile e femminista si siano occupati abbastanza poco, e solo negli ultimi tempi, delle discriminazioni multiple che colpiscono le donne con disabilità. Questo è un dato oggettivo che noi possiamo scegliere come trattare. Dunque possiamo utilizzarlo per colpevolizzare sia l’uno che l’altro associazionismo (cosa che vedo fare abbastanza di frequente), oppure possiamo prenderlo come dato di partenza per dire «ok, non stiamo a perdere tempo con ciò che è stato e diamoci subito da fare per costruire qualcosa di bello». Ecco, da quello che osservo, direi che il secondo approccio funziona meglio.

Pertanto la prossima volta che qualcuno/a vi chiederà perché mai dovrebbe occuparsi di genere e disabilità, la risposta potrebbe essere: «Perché è bello e fare cose belle fa stare bene, e poi, pensa che fortuna, lo prescrivono anche le Leggi!».

Responsabile di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), nel cui sito il presente contributo di riflessione è già apparso e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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