Omicidi-suicidi: costruire relazioni è comunque la possibile risposta

«Costruire relazioni è comunque la possibile risposta» e «mettere in dubbio e schierarsi contro l’inesorabile sensazione che non poteva che succedere quello che è successo, proprio in ragione della sola ed esclusiva presenza di una disabilità»: sono due passaggi del contributo con cui Maria Cristina Pesci, donna con disabilità, medica, psicanalista e attivista per i diritti delle persone con disabilita, arricchisce il confronto sul tema degli omicidi-suicidi posti in essere da alcuni/e caregiver ai danni di se stessi e della persona con disabilità di cui si curano, da noi recentemente avviato

Ombre davanti al sole di ragazzo in carrozzina e di adulto non disabileÈ rilevante che io sia una donna con disabilita? È rilevante che io sia una medica, psicanalista, attivista per i diritti di chi quasi per statuto è escluso, come ad esempio le persone con disabilita? È rilevante! Lo è, perché la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità ha legittimato tutto questo come diritto ed è un diritto che dobbiamo continuare a far conoscere per chiunque, con e senza disabilita.
Mi piace pensare che questo rimandi subito ad un grande tema di libertà: libertà di pensiero, libertà di parola, libertà di movimento.

Le persone con disabilità, se le ascoltiamo davvero, sempre fanno richiesta di essere “considerate”, di essere pensati/e da coloro che si prendono cura di loro come desiderabili e capaci di desiderare, di essere interlocutori attivi e irrinunciabili della propria vita e della propria esperienza personale, nel modo più accurato possibile.
Mi sono nuovamente chiesta quanto valga mostrare la propria dimensione personale e raccontarsi, se abbia rilevanza una domanda semplice: «Cosa voglio rappresentare? Cosa permette ad ogni persona di esprimere davvero qualcosa di sé?».
Mi viene facile qui inserire una citazione di Zerocalcare: «E siamo pure stupidi, perché ci impuntiamo a fare il confronto con le vite degli altri, che ci sembrano tutte perfettamente ritagliate e impilate e ordinate, e magari sono così perfette solo perché noi le vediamo da lontano» (Zerocalcare, Strappare lungo i bordi, serie animata del 2021, 1×06).

Nel ragionare del tema omicidio-suicidio in cui è coinvolta una persona con disabilità e il/la sua caregiver, ogni cosa estranea sembra improvvisamente familiare, ogni personaggio è sovrapponibile al suo contrario e nello stesso tempo è un ritratto perfetto di alcuni microvissuti della quotidianità di tanti e tante di noi.
Ogni differenza è ribaltata in normalità e quasi sembra perdersi fatalmente la certezza di cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, di cosa è atteso e di cosa è indesiderato, di cosa sia abilità e cosa invece disabilità, di ciò che si può desiderare e di ciò che è disapprovato, negato, censurato.
Questa occasione ci pone domande potenti, una fra tutte: «Come si può essere fedeli a sé, se attorno a noi qualcosa o qualcuno ci rifiuta, ci ferisce, non ci riconosce dignità, fino ad arrivare ad uccidere?».
Non c’è una sola risposta, ma per me rimanda comunque alla grande speranza che le alternative si possano costruire, trovando strade sempre nuove e sempre insieme. Costruire relazioni è comunque la possibile risposta: l’esatto contrario del silenzio e dell’estrema chiusura che è morire e trascinare con sé nella morte chi dipende dall’assistenza e dalla cura di qualcuno.

Credo che le persone che creano valore nelle relazioni, che danno agli altri tempo, spazi, voglia di farsi sorprendere, che hanno un fine comune, che si spendono per qualcosa che ascolta e quindi accoglie, sono felici quando si riconoscono.
Potrei dire che il desiderio di appartenenza è quello che consente di riconoscerci e di vivere, letteralmente o simbolicamente.
Forse ancora di più possiamo dire che è un valore irrinunciabile quello di rispecchiarsi, perché getta un ponte tra l’inaccettabile e il sentirsi capiti, ascoltati. E vale per tutti e tutte, con e senza disabilità.
Viceversa screditare ogni sentimento personale e collettivo di partecipazione e solidarietà è un modo per impedirci di pensare, di pensare insieme. Affermare che non ci sono più persone, affetti, valori e ideali che cercano vicinanza e solidarietà, è un’arma potentissima. Sottovalutare quest’arma è un errore e un rischio. Nessuno ci deve rubare la voglia di dichiararci, di provare, di proporre noi stesse e noi stessi, la forza di farci vive e vivi e inventare modi nuovi di aiuto e autoaiuto, di scelte e di alternanze anche nella condizione di dipendenza che la disabilità impone.
Ma autonomia di scelte in presenza di disabilità deve compenetrarsi con dipendenza dagli aiuti, sembra un ossimoro, ma è la chiave di svolta.

Farsi toccare da un tema come l’omicidio-suicidio significa lasciarsi sprofondare in un gioco di potere: chi può e chi non può, chi dà e chi riceve, chi è forte e chi NON DEVE pensare di poterlo essere. Un incastro in cui entrambe le parti credono di non avere alternative e questo è quello che le accomuna.
Chi ha bisogno di aiuto si sente colpevole. Chi deve aiutare si sente colpevole. I motivi sono differenti ma la sensazione interiore può essere la stessa. Se ti ribelli sei ingrata/o. Se ti ribelli come caregiver sei ignobile: un incastro perfetto! Non c’è solo amore. È solo una storia che la gente vuole sentire. Ma è una trappola che può appunto portare alla morte, letteralmente.
Ecco un mare di luoghi comuni che mi danno la forza di parlare. Sono tratti dalla scena finale di Monster (film del 2003 scritto e diretto da Patty Jenkins): «L’amore vince su tutto. Non tutto il male viene per nuocere. La fede smuove le montagne. L’amore trova sempre una strada. C’è una ragione per ogni cosa. Finché c’è vita c’è speranza. …qualcosa devono pur dirti».
Ed ecco i “luoghi comuni” che una persona con disabilità si trova ad indossare e quasi mai ha l’opportunità di descrivere:
– La penosità di essere dipendente da qualcun’altra/o.
– L’impossibilità di andarsene o scegliere da chi farsi aiutare.
Subire e non potersi lamentare se non a rischio di vedersi sottratto l’aiuto.
Anche lo stillicidio continuo di sentirsi un peso richiama la sensazione di subire una continuata “piccola” morte, sicuramente una mortificazione.
Elaborare il proprio vissuto di esclusione che la disabilità propone e nel contempo uscire dalle sabbie mobili del vittimismo è un’operazione che non puoi evitare di fare ogni momento ogni giorno da quando hai la consapevolezza di esistere e di interagire in un mondo che ti circonda. Ma dà frutti inesauribili.
Il dolore dell’esclusione e della disperazione ha di fronte a sé, come via d’uscita, il modo di trasformarlo in parole, gesti, comportamenti, attraverso cui il racconto di sé si fa Vivo.
Ci si può sentire riconosciuti e accolti, anche per quegli aspetti inevitabili della propria consapevolezza ed esperienza legata alla disabilità. Si può constatare che chi ci sta di fronte è in grado di esserci e di contenere tali contenuti dolorosi, fino ad iniziare un processo di trasformazione del disagio, della rabbia…, sperimentando che tale dolore non produce solo distruzione, solitudine, terra bruciata attorno a sé, ma può essere condiviso e dunque evolvere. Ogni cosa, anche difficile, si può trasformare, se la comunità ti riconosce.

Vorrei qui citare Sara Carnovali [avvocata con un dottorato di ricerca in Diritto Costituzionale, N.d.R.], che sottolinea distinzioni fondamentali e piene di percorsi di emancipazione in queste riflessioni: «CAREGIVERCENTRISMI. Vorrei far notare a molti che ieri era la giornata internazionale delle persone con disabilità, non dei caregiver familiari, non dei genitori o familiari delle persone con disabilità. O la finiamo una volta per tutte con questo “caregivercentrismo” quando si parla di diritti umani delle persone con disabilità o non raggiungeremo mai la pienezza dei diritti fondamentali, tra cui in primis quello alla vita indipendente. I caregiver hanno loro propri diritti fondamentali (e ci mancherebbe altro), che però sono cosa diversa da quelli delle persone con disabilità, cosa diversa e separata, e talvolta perfino in conflitto con gli interessi e le aspirazioni di queste ultime. Questo familismo tipicamente italiano, per cui il bene del figlio coincide con quello del familiare, un familismo che appanna o fagocita i diritti individuali, più invecchio e meno lo tollero. Fare questi discorsi è un po’ da eretica, di questi tempi, mi rendo conto. Ma credo che a una certa si debba pur dire, perché ho esaurito la sopportazione, dopo una settimana che, in tutte le sedi e tutte le volte che si parla di diritto alla vita indipendente delle persone con disabilità, il discorso vira totalmente sulle famiglie. Ma anche basta. Basta».
Forse sembrerà irrilevante, ma che queste parole siano scritte da una persona colta e profonda, ma che non vive una condizione di persona con disabilità, per me è invece motivo di grandissima felicità. Non siamo da soli, non siamo da sole.

Scrive Simona Lancioni su queste stesse pagine: «Com’è possibile che vengano uccise persone che vogliono vivere? La prima cosa che viene in mente è che alcuni/e caregiver svolgano il proprio ruolo con modalità paternalistiche, e si sostituiscano alla persona con disabilità perché non le riconoscono la capacità e il diritto di disporre di sé, cosa illegittima anche nei casi di persone con disabilità intellettiva e psichiatrica».
Sono riflessioni importanti e vorrei aggiungere che non è solo una questione di sostituirsi alla persona con disabilità, ma addirittura di con-fondersi con essa, non avere più confini, non avere più possibilità di distinzione, possibilità di allontanarsi ed essere diversi. Il bisogno di prendersi cura fagocita due individui e ne crea un terzo, mostruoso, simbolo di solitudine e di prigionia.
Tutto questo non può produrre qualcosa di vitale, ma esattamente il suo opposto. E così, se per la persona che offre aiuto non c’è più senso ad una vita così deprivante, non si crea nemmeno lo spazio, perché la scelta di finire la propria vita sia distinta e separata dalla scelta di vivere di chi ha bisogno di essere assistito e che solo in questa accezione non può scegliere. 

«C’è poi un ulteriore aspetto – scrive ancora Simona Lancioni nel suo prezioso testo – che solitamente non viene rilevato. Si tratta del silenzio delle persone con disabilità. Non mi riferisco naturalmente a quelle uccise, che non parlano per ovvi motivi, mi riferisco alle altre. Le persone con disabilità delle ultime generazioni, forti del loro percorso di autoconsapevolezza, si esprimono pressoché su tutti gli aspetti che riguardano la disabilità, e tuttavia è abbastanza raro che commentino queste vicende».
Sono d’accordo che un sentimento di angoscia e di terrore che viene citato da Lancioni, inibisce pensieri e parole, e invece è fondamentale che debba essere affrontato e messo in conto se si tocca questo tema. E credo che il motivo per cui in genere anche le persone con disabilità che più si impegnano per i diritti di tutti e tutte non parlino spesso di questo difficile argomento sia da attribuire al senso di vuoto e impotenza che si avverte attorno a sé, come se nessuno davvero nel mondo culturale e sociale fosse disponibile a mettere in dubbio e schierarsi contro l’inesorabile sensazione che non poteva che succedere quello che è successo, proprio in ragione della sola ed esclusiva presenza di una disabilità.
Ecco perché quando una persona solleva dubbi e si ribella, che abbia una disabilita oppure no, è comunque una persona coraggiosa, controcorrente e porta il valore della libertà in ciò che cerca di esprimere.

C’è sempre una strada alternativa, a volte la si trova in mappe improbabili, inaspettate e sono quelle che danno più allegria. bell hooks [scrittrice, attivista e femminista statunitense, N.d.R.] scrive: «È fondamentale per la nostra lotta per l’autodeterminazione che parliamo d’amore. Poiché l’amore è la base necessaria che ci permette di sopravvivere alle guerre, alle difficoltà, alle malattie e al morire con il nostro spirito intatto. È l’amore che ci permette di sopravvivere interi» (bell hooks, Tutto sull’amore. Nuove visioni, Feltrinelli, 2003).
Grazie.

Donna con disabilità, medica, psicoanalista, attivista per i diritti delle persone con disabilità.

Il presente contributo di riflessione è già apparso nel sito di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con una serie di riadattamenti dovuti al diverso contenitore, per gentile concessione.

Please follow and like us:
Pin Share
Stampa questo articolo