La miglior vita possibile per le nostre figlie e i nostri figli con disabilità

Ripescando nella memoria le tante battaglie in favore delle persone con disabilità gravissima, e anche pensando a situazioni non certo positive, Giorgio Genta, “vecchio caregiver”, come gli stesso si definisce, prende spunto dalla brutta vicenda del giovane con grave disabilità arbitrariamente sottratto alle cure della famiglia e rinchiuso da due anni in una struttura sanitaria, per scrivere «che vale sempre la pena di perseguire tenacemente la miglior vita possibile per le nostre figlie e i nostri figli con disabilità e che nessuno di noi ha mai rimpianto quanto essa ci è costata»

Oriella Orazi, "Abbraccio"

Oriella Orazi, “Abbraccio”

È notte e il vecchio caregiver, tutto intento a decifrare il segnale di allarme del ventilatore polmonare di Silvia, non si avvede subito di quanto trasmette la TV, tenuta a volume zero per non disturbare la dormiente.
Zittito l’allarme (leggi: cattivo funzionamento del capnometro) e blandita l’utente del medesimo, il vecchio cautamente alza il volume della TV e coglie solo le ultime battute dell’odissea di Carlovittorio e di sua madre, ospite quest’ultima della trasmissione di RAI 1 Storie italiane, condotta da Eleonora Daniele, nella quale il magistrato in pensione, convocato come esperto, definisce incredibile e particolarissimo il comportamento del giudice tutelare.
Non desta invece particolare sorpresa nel vecchio caregiver il comportamento dei servizi sociali implicati nella vicenda, avendo constatato da anni il crollo di professionalità all’interno di detti servizi (fatte salve lodevoli eccezioni) e il cattivo uso della benemerita Legge sull’amministratore di sostegno, ad esempio la tendenza a nominare estranei alla famiglia, avvocati e/o commercialisti, retribuiti dalla famiglia stessa.

Passando dalla terza alla prima persona singolare (perdonatemi, è effetto del post-Alzheimer), credo che Marco Espa, Dario Petri e Simona Lancioni abbiano trattato su queste stesse pagine i vari aspetti del caso con sufficiente ampiezza. Con la Federazione Italiana ABC (Associazione Bambini Cerebrolesi) ho identità di vedute, di Simona apprezzo l’onestà intellettuale, l’impegno e l’energia che profonde nel “combattimento”, riservandomi di dissentire su aspetti marginali.

Il fatto di essere così vecchio mi ha permesso di vivere alcune tappe fondamentali dell’ABC, come quando nel 1995 in quattro gatti affrontammo l’allora ministro della Sanità Elio Guzzanti, per ottenere dalle Regioni il rimborso delle spese di viaggio e/o sanitarie sostenute all’estero per i nostri figli con disabilità gravissima.
Ricordo quando riuscimmo a dare dignità ufficiale al termine “disabilità gravissima” e la nostra definizione (centrata sull’assistenza necessaria) venne accettata, superando polemiche e diffidenze, comparendo per la prima volta in documenti ministeriali.
Con nostalgia ripenso a quando con Dario Petri scrissi La famiglia con disabilità, con la speranza di far capire ai professionisti della Sanità e delle altre Istituzioni le necessità delle nostre famiglie, un libretto oggi un po’ datato, ma che resta ancora sostanzialmente valido.
Scoprimmo (si fa per dire) il termine “resilienza” e lo applicammo alla disabilità (“mi piego ma non mi spezzo!”). Il termine divenne poi abusato ed entrò addirittura a far parte del PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, appunto.
Guidati da Salvatore “Tillo” Nocera, sempre buon maestro, ci impegnammo nell’integrazione scolastica di qualità e nella sua prosecuzione come integrazione sociale.
Ricordo anche alcune brutte cose, quali le costanti riduzioni dei presìdi igienici forniti (ad esempio i pannoloni) e il relativo aumento dei dolorosissimi decubiti, gli istituti-lager ove vengono dedicati pochissimi minuti al giorno all’igiene personale degli ospiti, gli scandali dei maltrattamenti agli ospiti di numerose strutture e altre tristezze del genere.
Ricordo però di avere ogni volta risposto, insieme agli amici della Federazione Italiana ABC, che vale sempre la pena di perseguire tenacemente la miglior vita possibile per le nostre figlie e i nostri figli con disabilità e che nessuno di noi ha mai rimpianto quanto essa ci è costata. Esistono certamente “famiglie patologiche”, ma il loro numero è infinitamente inferiore alle “patologie comportamentali” riscontrabili nei servizi sociali e sanitari. Per noi la miglior vita possibile è quella in famiglia.

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