Che cosa vuol dire “tutti”?

«Ritengo essenziale – scrive tra l’altro Marta Ester Quaglierini – che ciascuno sia messo “nella condizione di…”, attraverso il pieno rispetto dei suoi bisogni; e che si operi affinché quel “a ciascuno secondo i suoi bisogni” non si traduca comunque in isolamento e mortificazione. E credo che per cambiare il mondo si debba imparare a tenere ben distinto l’“Essere” dal “Dover Essere”»

Ospitiamo ben volentieri il seguente contributo di riflessione, con un’unica avvertenza: l’elaborazione di esso risale al 2014, ossia a quasi dieci anni fa. Ai Lettori e alle Lettrici giudicare se i suoi contenuti siano ancora attuali.

René Magritte, "Decalcomania", 1966

René Magritte, “Decalcomania”, 1966

Che cosa vuol dire “tutti”? Innanzitutto «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».

Non sono la paladina della Giustizia. Non credo nelle Verità Assolute né nei Valori Assoluti. Questo mio non vuol essere un testo dolente o serioso, né il manifesto dei buoni sentimenti. Non si tratta neanche di un inno all’amicizia, dato che ritengo che il rispetto non necessariamente debba esser accompagnato da ammirazione e affetto.
Scrivo quindi per rispondere all’interrogativo «Che cosa vuol dire, per te, essere antirazzista?» e decido di rispondere formulando a mia volta una domanda: «Che cosa vuol dire “tutti”?».
Ci si rivolge continuamente a “tutti” («Sarò il Sindaco di tutti», «Tutti sono invitati alla sagra di paese», «Tutta la cittadinanza è invitata a seguire il corteo», «Ciao a tutti…»). Ma cosa si intende, precisamente, quando si dice “tutti”?

L’esempio più chiaro di razzismo, emarginazione e discriminazione non è quello di una persona che calpesta, deride o spintona un’altra persona per i “motivi” più vari; no, credo che l’esempio più radicale e più comune di razzismo si verifichi in tutti quei casi in cui l’esclusione di una persona non è dettata da una “semplice” dimenticanza. Voglio dire: è forse possibile dimenticare qualcuno a cui neanche abbiamo mai pensato? Intendo pensato come esistente, libero, degno di accoglienza e rispetto. Mi riferisco, quindi, all’automatica esclusione di certe persone legata alla mancata maturazione perfino della coscienza di emarginare molti individui attraverso i propri gesti e le proprie scelte.

Se, in quanto responsabile di un luogo, all’ingresso su un cartello evidenzio che «I cani non possono entrare», «I cellulari devono essere spenti», «Non possono essere fatte fotografie», «Non si può entrare mangiando il gelato», significa che ho immaginato la possibilità dell’arrivo davanti ad un determinato luogo di una persona con il cane, con il cellulare acceso, con la macchina fotografica, con il gelato.
E se il luogo in questione (facendo un esempio di fantasia, ma altamente verosimile) è una sala cinematografica presente al secondo piano di un edificio senza ascensore, in cui vengono proiettati film privi sia di sottotitoli per non udenti che di cuffie con audiodescrizione per non vedenti, da gustare seduti su comode poltrone per cinefili paganti dal fisico asciutto? Le persone sorde, ad esempio, sono di fatto escluse, ma qualcuno ha forse mai letto, fuori da un cinema, «I sordi non possono entrare»?
«Ma i sottotitoli sono fastidiosi», viene detto. «Ma fare uno scivolo davanti all’entrata è costoso», viene detto.
Nel momento in cui dev’essere ammobiliata una sala riunioni, non ho mai udito controbattere: «Ma come… acquistiamo sedie e tavoli e poi magari nessun partecipante vuol prendere appunti da seduto?». «“Ma cosa dobbiamo fare? Andare incontro a un sacco di spese e poi magari nessun cieco si presenta al cinema?», viene invece tanto candidamente quanto ironicamente domandato.

Questi sono solo alcuni esempi di persone neanche pensate, neanche immaginate che – una volta conosciute accidentalmente – di colpo divengono ingombranti.
Persone che, al contrario di certi esseri umani privilegiati, vivono un’esistenza oscena, ridicola, insignificante, tutto sommato trascurabile. “Gentaglia” che, a differenza della “razza ariana”, non rivendica il rispetto di diritti inalienabili. bensì porta avanti capricci, oltretutto onerosi e destabilizzanti.
La brava gente, poi, si sa, non va turbata con discorsi su relazioni omosessuali, dialogo interreligioso, antipsichiatria eccetera (un “eccetera” che non vuol essere sbrigativo).
Ma è davvero necessario ricordare chi sono coloro che sono soliti trasformare i diritti in favori?

Abbiamo costruito (ereditato, assecondato) un mondo in cui ad alta quota, durante un banalissimo volo di un’ora, vengono venduti hot-dog, gratta e vinci, bibite, lotterie, riviste, oltre ai profumi firmati dai più “grandi” stilisti.
Abbiamo costruito (ereditato, assecondato) un mondo in cui una donna diabetica di circa 190 chili, bisognosa di urgenti cure negli Stati Uniti, quest’estate [del 2014, N.d.R.] è deceduta in seguito al rifiuto, da parte di tre compagnie aeree europee, di farla salire a bordo.
Qualcuno, poi, dovrebbe spiegarmi cortesemente la differenza tra gli “autobus per negri” e gli scompartimenti dei treni riservati esclusivamente ai disabili, disponibili ovviamente (?) soltanto in seguito a precisa richiesta presentata per tempo.
E su questa linea, quindi inadeguata e offensiva, rientra anche la logica del piattino: un grande buffet offerto a “tutti” (appunto), e per le persone celiache – a parte – un piattino, preparato in tutta fretta, con due foglie di insalata e tre chicchi di riso in bianco.

Ecco, in questo momento, tra i vari diritti calpestati, un diritto da riscoprire e tutelare credo che sia il diritto all’improvvisazione. Il diritto, la libertà di decidere all’ultimo momento di andare ad un convegno o in discoteca; la libertà di decidere all’ultimo momento di salire su un pullman o su un treno; la libertà di vivere senza dover annunciare in largo anticipo e in mondovisione i propri spostamenti.

Non credo che si debbano distruggere tutte le cose o abolire tutte le Istituzioni perché alcune persone, in base a caratteristiche personali, condizioni patologiche e/o scelte, non possono o non vogliono usufruire e godere di qualcosa. Ad esempio non credo che la soluzione sia quella di vivere tutti di sola acqua, perché non c’è pietanza a cui almeno una persona non sia allergica o intollerante, o che da qualcuno non venga trovata disgustosa. Ritengo invece essenziale che ciascuno sia messo “nella condizione di…”, attraverso il pieno rispetto dei suoi bisogni; e che si operi affinché quel “a ciascuno secondo i suoi bisogni” non si traduca comunque in isolamento e mortificazione.

«Tu vivi in un mondo ideale», viene detto. Ma se non dall’utopia, da cosa dobbiamo cominciare? dalla legge della domanda e dell’offerta? E poi: che cosa vuol dire “mondo ideale”?
Voglio citare la “Legge Sirchia”, quella antifumo: stamani la gente è insorta perché ha visto alcuni passeggeri fumare durante la corsa dell’autobus. La stessa reazione avviene alla vista di un fumatore all’interno di un pub, no? Eppure quindici anni fa era normale uscire da una birreria con i vestiti impregnati di fumo.

Normale, normale.
Credo che per cambiare il mondo si debba imparare a tenere ben distinto l’Essere dal Dover Essere, e che i rivoluzionari, quelli veri, se mai si sono inchinati davanti a qualche legge, non lo hanno fatto di fronte a quelle di mercato, ma a quella di Hume.
Se ricordiamo Franco Basaglia, del resto, è perché è stato un tizio che non si è accontentato dell’idea diffusa secondo la quale Esistono i manicomi Devono esistere i manicomi.
D’accordo, il mondo a qualcuno può piacere così com’è, ma – per favore – la giustizia umana non venga basata sull’abitudine: ciascuno abbia il coraggio di andare alla ricerca dei fondamenti etici delle proprie idee.

Ecco, come ho scritto all’inizio, questo è il mio antirazzismo; ma subito dopo avere scritto “antirazzismo”, sento che dovrei aver più pudore a utilizzare certe parole: se abbasso lo sguardo vedo le mie dita battere su una tastiera fabbricata, con tutta probabilità, da schiavi… e quando andrò a rileggere questo testo, neanche mi accorgerò delle tante mie omissioni e ingiustificabili contraddizioni.
E allora non voglio dimenticare che ciascuno di noi ha nelle viscere residui di razzismo, echi di “vabbè”.

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