Siamo tutti debitori verso qualcosa o verso qualcuno

«La resilienza non è solo dei campioni e di chi ha successo – scrive Orlando Quaglierini – e soprattutto siamo tutti debitori verso qualcosa o verso qualcuno. E ad ogni buon conto non è necessariamente quello di emergere e primeggiare l’unico modo di esprimere la resilienza e nemmeno è il più importante, è solo quello reso più appariscente dai mass-media e da un’egemonia culturale che predilige il successo»

Magritte, "Golconda", 1953

René Magritte, “Golconda”, 1953, Houston (Texas), Menil Collection

L’Italia che mi piace è quella che non si dà per vinta, anche se non vince mai; che reagisce, certo, ma lo fa nella consapevolezza che non salirà mai su un podio. Mi piace la resilienza della mia gatta che cinque anni orsono tornò a casa, non si sa per quale disavventura, con una delle due zampe anteriori malconcia. Di sicuro non vincerà mai un concorso che premi la gatta più bella, ma lei continua la sua vita su tre zampe.
Mi piace la resilienza dei migranti economici del Sud Italia che negli Anni Cinquanta e Sessanta andarono a lavorare nelle industrie del Nord. Ora quel Nord, arricchitosi anche sulle spalle di quei migranti, dà il benservito all’Italia del Sud e alza il ponte levatoio, salvo riaprirlo magari per disfarsi delle scorie tossiche industriali e trasferirle al Sud.
La resilienza che mi piace è quella dei migranti economici italiani che si spaccarono la schiena a Marcinelle nelle miniere del Belgio e con le loro rimesse contribuirono a risanare le nostre disastrate finanze postbelliche, e grazie agli accordi bilaterali (Protocollo Italo-Belga del 1946) garantirono all’Italia che stava rinascendo dalle macerie carbone a buon mercato, anche e soprattutto all’industria del Nord (sempre quello, il solito che ora ha alzato il ponte levatoio…). Per giunta quei minatori erano italiani anche per il fisco, a differenza di molti esponenti di successo dello sport, dello spettacolo, dell’imprenditoria, che scelgono di risiedere in lidi fiscalmente più compiacenti.

La resilienza non è solo dei campioni e di chi ha successo. Certo Zanardi e Bebe Vio, diventando protagonisti sportivi nonostante la loro disabilità, ne rappresentano un fulgido esempio. Stessa considerazione vale per chi è riuscito ad emergere da situazioni difficili a prescindere dalla disabilità; ma andiamoci piano nell’ascrivere tutto il “merito” a costoro come se fossero il “punto zero” di tutti i loro pensieri e di tutte le loro azioni. Il self made man, l’uomo che “si fa tutto da solo”, è una colossale mistificazione. Siamo tutti debitori verso qualcosa o verso qualcuno. Lo ha capito bene Oscar Farinetti, quando, senza tanta prosopopea, afferma che il suo successo imprenditoriale è dovuto certo anche alle sue capacità, ma anche a delle circostanze fortuite che l’hanno favorito.

Ad ogni buon conto non è necessariamente quello di emergere e primeggiare l’unico modo di esprimere la resilienza e nemmeno è il più importante, è solo quello reso più appariscente dai mass-media e da un’egemonia culturale che predilige il successo.
Non conosco le storie di tutti i campioni sportivi, di tutti i personaggi dello spettacolo o dell’imprenditoria che hanno avuto successo, ma ritengo statisticamente probabile che durante la loro infanzia e adolescenza abbiano fruito delle scuole pubbliche, dei pediatri e dei medici di medicina generale, anche loro si saranno vaccinati, anche loro avranno percorso le strade statali, provinciali e comunali, anche loro avranno avuto bisogno una volta di un’ambulanza o dei pompieri e l’elenco potrebbe continuare a lungo… e tutto ciò senza sborsare un euro o lira che fosse. Quando finalmente sono diventati produttivi ed è giunto il momento di restituire qualcosa alla comunità, che fanno? Prendono la residenza nei paradisi fiscali! E che fanno le istituzioni, i mass-media, l’industria culturale? Anziché dir loro «prima passate dalla cassa, mettetevi in pari con l’Agenzia delle Entrate e poi se ne riparla», che fanno invece? Li omaggiano, li accolgono in trionfo e così facendo contribuiscono a far sì che fra questi “nuovi eroi” del nostro tempo e gli sponsor e l’industria della pubblicità inizi una reciproca spremitura, utile e remunerativa per entrambe le parti, finché il ferro è caldo (pensare che quel buontempone e ingenuo di Immanuel Kant riteneva che un individuo dovesse rapportarsi con un suo simile solo considerandolo un fine e mai un mezzo per raggiungere uno scopo!).
Non possiamo impedir loro di prendere la residenza dove meglio credono, perché l’Europa… perché la corte di Strasburgo… perché… bene… (cioè male… ma, anche se a fatica, posso farmene una ragione). Non possiamo biasimarli perché atrimenti passiamo per i soliti menagramo catto-comunisti, con quella fissazione sulla sobrietà, l’egalitarismo e la giustizia sociale, bene… (cioè male… ma, anche se a fatica, posso farmene una ragione). Ma quello che proprio non capisco è perché farli assurgere a modelli da imitare verso cui i giovani dovrebbero guardare e cercare di emularli.
Che deve pensare un bambino di tutto questo? Soprattutto a quell’età in cui crede, sbagliando il poveretto, che gli adulti abbiano sempre ragione! Cosa deve pensare del fatto che suo padre ci mette quarant’anni a guadagnare quello che i “nuovi eroi” guadagnano in un mese? Cosa deve pensare di fronte a questo spettacolo grottesco?!

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