Ben volentieri aderisco alla richiesta di Superando.it di commentare la vicenda di Ashley, bimba statunitense affetta da una grave encefalopatia di origine ignota, sottoposta a trattamento con estrogeni ad alte dosi ed isterectomia all’età di 6-7 anni, al fine di impedirne la crescita staturo-ponderale, rendendo quindi più facile per i genitori accudirla.
La richiesta di un intervento volto all’arresto della crescita della bambina è stata appunto avanzata dai genitori, che hanno manifestato sia il desiderio di continuare ad accudirla a casa, occupandosene personalmente, sia il timore di non essere più in grado di farlo, con il passare degli anni, proprio a causa delle modificazioni somatiche legate alla crescita.
A questo punto, in considerazione del commento che mi è stato richiesto, ho preferito acquisire documentazione scientifica sulla vicenda per poter parlare con qualche dato certo in più e proprio dalla letteratura scientifica intendo partire, per proporre successivamente alcune considerazioni più generali.
Premessa fondamentale è che non sono un’endocrinologa pediatra e quindi, per gli aspetti relativi al trattamento a base di estrogeni, mi atterrò esclusivamente ai dati pubblicati, non avendo in questo ambito una sufficiente esperienza clinica diretta.
Altra premessa fondamentale è che il trattamento al quale è stata sottoposta Ashley è stato pubblicato dalla rivista «Archives of Pediatric and Adolescent Medicin» (Attenuating Growth in Children with Profound Developmental Disability, vol. 160, 2006, pp. 1013-1017), dai colleghi che hanno deciso e intrapreso il trattamento stesso e che stanno seguendo la bimba. Tutto è stato condotto presso la Divisione di Endocrinologia Pediatrica del Children’s Hospital and Regional Medical Center dell’Università di Washington a Seattle.
Ciò a dire che si tratta di una decisione presa all’interno di una struttura di rilevo scientifico e che è stata resa pubblica attraverso i canali ufficiali e riconosciuti della letteratura scientifica internazionale, su una “rivista indicizzata” (ritenuta cioè “di rilievo, serietà e qualità scientifica”).
Sullo stesso periodico, poi, alle pagine 1077-1078, è pubblicato da due colleghi del Dipartimento dell’Università di Miami un interessante commento (Growth Attenuation. A Diminutive Solution to a Daunting Problem), al quale farò pure riferimento.
Qual è la patologia di Ashley e quali sono le sue condizioni?
Ashley non ha una diagnosi precisa: nel citato articolo viene detto infatti che è nata da genitori sani, che non ci sono stati problemi né durante la gravidanza né durante il parto, ma poi, fin dal primo mese di vita, è stata evidenziata una riduzione del tono muscolare, difficoltà nel succhiare e deglutire, con successiva comparsa di movimenti involontari di tipo coreoatetoide [movimenti lenti e continui degli arti, involontari appunto, che abitualmente indicano una sofferenza di particolari strutture encefaliche dette “nuclei della base” e parassitano tutte le attività del soggetto, N.d.R.].
Le indagini strumentali e cliniche effettuate, sempre stando a quanto viene riferito nell’articolo, non hanno permesso di arrivare ad una precisa definizione diagnostica, come purtroppo spesso succede in questi casi, non necessariamente per scarsa accuratezza, incompetenza o altro da parte dei medici, ma perché ancora molto resta da studiare e da scoprire, nonostante i progressi scientifici.
In ogni caso, Ashley non ha avuto ulteriori acquisizioni motorie né, apparentemente, cognitive, sebbene si dica che entra in relazione con chi le sta intorno, sorride e vocalizza. Attualmente la bimba non è in grado di muoversi né di nutrirsi autonomamente (le è stata praticata una gastrostomia) e non parla.
Ancora nel citato articolo viene indicato che la bambina è parte integrante del nucleo familiare, composto anche da altri due fratelli sani, e che è molto amata.
Perché la richiesta dei genitori?
All’età di 6 anni e 7 mesi sono comparsi i primi segni di sviluppo puberale e i genitori hanno quindi portato Ashley presso l’ambulatorio di endocrinologia pediatrica per capire che cosa stesse succedendo. Vi era stata, in concomitanza, una crescita importante di statura e quest’ultima, unita all’insieme della pubertà precoce, aveva attivato la preoccupazione dei genitori in merito al futuro della bambina: viene esplicitamente detto che i genitori si sono preoccupati di essere costretti a «consegnare Ashley nelle mani di estranei per l’accudimento quotidiano», quando fosse diventata somaticamente più grande e inoltre erano preoccupati dall’imminente comparsa delle mestruazioni.
Che cosa si è deciso?
Nell’articolo si dice che «dopo un lungo lavoro di consultazione e riflessione tra i genitori e i medici, è stato proposto un piano volto a ridurre la crescita attraverso la somministrazione di estrogeni ad alte dosi e a ridurre le complicanze a lungo termine della pubertà in generale e i possibili effetti avversi, in particolare attraverso un’isterectomia [asportazione chirurgica dell’utero, N.d.R.], precedente il trattamento ormonale».
Si dice inoltre che poiché si tratta di un trattamento non convenzionale e controverso, il caso è stato sottoposto alla valutazione del Comitato Etico dell’ospedale che, «al termine di lunghe discussioni, ha ritenuto eticamente appropriate in questo caso sia la somministrazione di estrogeni al fine di ridurre la crescita, sia l’isterectomia preventiva».
Ashley è stata quindi sottoposta all’intervento chirurgico, riuscito tecnicamente bene e senza complicanze e poi alla somministrazione di estrogeni per via transdermica (tramite cerotto); vengono effettuati controlli sia clinici che ematochimici (esami del sangue) a cadenza trimestrale e, a detta degli autori, attualmente, dopo più di un anno, non ci sono effetti collaterali.
Cosa si sa degli estrogeni?
Tanto per fornire un’idea scientificamente corretta del trattamento, va detto che è noto da tempo l’effetto degli steroidi sessuali sulla crescita; si sa per esempio che tanto più precoce è la pubertà, tanto minore sarà la statura raggiunta, da adulto, da parte del soggetto.
La crescita e la maturazione ossee dipendono da un complicato intreccio di fattori. In particolare, nelle ragazze, sono soprattutto gli estrogeni a determinare la crescita ossea e in particolare la “chiusura” delle placche di crescita ossee, ovvero, in sintesi, la statura finale.
Un’elevata dose di estrogeni, superiore a quella che fisiologicamente viene prodotta durante la pubertà e che determina l’accelerazione della crescita tipica di questo periodo della vita, determina una precoce saldatura ossea e un conseguente arresto della crescita (quindi una statura finale più bassa).
La somministrazione di estrogeni ad alte dosi è stata impiegata ad esempio nelle ragazze con alta statura costituzionale (cioè alta statura non dipendente da malattie endocrine), dietro richiesta delle ragazze stesse e dei loro genitori, durante l’adolescenza e nella preadolescenza, per ridurre la statura finale, a scopo essenzialmente “estetico”.
Un articolo pubblicato dalla rivista «Clinical Endocrinology» (Effects of Growth Reduction Therapy Using High-Dose 17ß-Estradiol in 26 Constitutionally Tall Girls, vol. 64, 2006, pp. 423-426) da parte di un gruppo di ricerca francese ha riportato i risultati di questo trattamento su 26 ragazze sane, che presentavano alta statura in epoca precedente alla prima mestruazione (la statura media dei soggetti inclusi era di 171 cm ± 6.5 centimetri), ottenendo una riduzione della statura finale di 2.4 ± 3.2 centimetri, con effetti collaterali di scarso rilievo: nausea, affaticabilità, aumento della pigmentazione cutanea, dolori al seno e/o addominali.
Tra gli effetti collaterali che teoricamente si sarebbero potuti verificare vi erano inoltre tromboembolie, alterazioni (aumento) del livello dei trigliceridi nel sangue, aumento di peso. Viene anche segnalato un rapporto non ancora chiaro tra estrogeni ad alte dosi e il rischio di cancro mammario.
Nello stesso articolo viene tuttavia riportato che, studiando a posteriori un grande gruppo di pazienti adesso adulte, trattate durante l’adolescenza con alte dosi di estrogeni, è stata riportata una maggiore difficoltà al concepimento.
Lo stesso testo conclude affermando che: «Lo scarso risultato finale [sulla statura] del trattamento e l’incertezza sugli effetti collaterali a lungo termine indica la necessità di grande cautela nell’impiego di questo trattamento [in ragazze che abbiano alta statura costituzionale]» e suggerendo «l’opportunità di studi volti a individuare altre sostanze che inibiscano la crescita staturale».
Tornando ad Ashley
Il dibattito etico su questa vicenda è inevitabile. Personalmente tengo a precisare che non mi sento di dare alcun parere sulla scelta dei genitori, che intuisco motivata da profonde preoccupazioni, difficoltà obiettive, paure sul futuro, che sono un elemento costante nei genitori di bambini con grave disabilità psicofisica.
Non ho la possibilità di parlare con questa coppia, non li ho seguiti nel momento della decisione né li ho conosciuti in occasione della diagnosi e negli anni precedenti, quindi davvero non posso permettermi alcuna riflessione.
Sebbene essi abbiano aperto un blog in iternet, non ritengo che questa sia la fonte per trovare risposte a domande che mi vengono spontanee e che tuttavia presuppongono un rapporto profondo, riservatissimo e diretto.
Mi chiedo, ad esempio, che valore abbia, per questi genitori, la crescita fisica della loro bambina, che cosa si immaginino di lei, che cosa sia stato offerto loro a livello sociale per rassicurarli circa la possibilità di continuare ad avere Ashley a casa, con loro, anche da grande, magari con il supporto di qualche assistente esterno nella gestione quotidiana.
Ancora mi chiedo se e in quale modo l’idea di una figlia disabile “sempre bambina” possa facilitare l’investimento affettivo da parte dei genitori e viceversa mi chiedo se, per i genitori, un figlio con grave disabilità psicofisica e visibilmente adulto acuisca le difficoltà non solo a livello pratico, ma anche, ad esempio, suggerendo il passare del tempo, e quindi l’idea della propria vecchiaia, della morte e l’angoscia conseguente del “dopo di noi”, oppure anche quanto influisca sulla possibilità di essere accettati e accolti dalla società, in linea di massima più benevola nei confronti di un bambino. E molte altre domande…
Devo dire che, nell’esperienza clinica quotidiana, non mi è mai capitato di ricevere la richiesta di un arresto della crescita fisica da parte dei genitori di bambini gravemente disabili, mentre è abbastanza comune sentire appunto le preoccupazioni relative alla vita dei figli quando i genitori non ci saranno più, ma anche le problematiche legate alla diversa organizzazione socioassistenziale nei soggetti divenuti adulti anagraficamente.
Se infatti fino ai 18 anni – almeno in Italia – i ragazzi con gravi disabilità nell’ambito della neuropsichiatria infantile sia ospedaliera che territoriale hanno una discreta assistenza (per quanto diversa da caso a caso e purtroppo non sempre “eccellente”), in seguito si trovano spesso in seria difficoltà.
Sono invece molto più perplessa e preoccupata dagli aspetti di etica medica legati alla vicenda di Ashley e partirei da quanto hanno scritto gli autori degli interventi sulla bimba – oltre che dal citato editoriale di commento – per approfondire la questione, non certo con il proposito di trovare risposte assolute, ma piuttosto di sollevare inquietanti problematiche.
Gli stessi autori introducono il dibattito sulla questione etica dichiarando che «vi sono buone ragioni storiche per procedere con cautela nella considerazione di un intervento diretto a persone che abbiano disabilità mentale. Abusi passati nei confronti di queste persone sono ben documentati […] ma i passati abusi non ci devono dissuadere dalla ricerca di nuovi interventi terapeutici che possano portare a dei benefìci».
Pur sottolineando quindi la grave compromissione psichica della bambina in questione e quindi la differenza rispetto a soggetti affetti magari da difetti cognitivi di modesta entità, gli autori ravvisano tuttavia la necessità di una regolamentazione volta a verificare l’appropriatezza di analoghi interventi, valutando i singoli casi.
I parametri che gli stessi autori suggeriscono per valutare l’appropriatezza del trattamento sono:
– La riduzione della crescita ottenuta offre al soggetto dei benefìci?
– Il trattamento danneggia il soggetto in qualche modo? (con particolare relazione al principio etico del “non maleficio” – primum non nocere – che sempre andrebbe rispettato nella pratica medica).
Il beneficio ipotetico di questo trattamento, a detta degli autori, è la possibilità che la bimba venga accudita ancora dai genitori e che, essendo più facile da spostare in quanto piccola, possa continuare ad essere inserita nelle attività quotidiane, tra le persone e così via.
Sull’altro versante viene considerato poi che:
– sebbene il rischio dell’attivazione di processi tromboembolici sia reale, non si discosterebbe molto da quanto già accade se ad esempio si utilizza una terapia ormonale in soggetti con problemi analoghi per impedire il ciclo mestruale;
– il valore “sociale” della statura viene meno in soggetti che comunque, a motivo della loro disabilità psichica, siano già esclusi da una serie di possibili obiettivi di successo sociale;
– l’alterata percezione altrui dell’età di una persona somaticamente piccola non avrebbe importanza in un soggetto che appunto per la natura della sua disabilità psichica non possa comunque interagire normalmente con l’esterno.
Quindi, in conclusione, i rischi non sono irragionevoli – a detta degli autori – né tali da dissuadere l’intervento attuato sulla base del principio del “non maleficio”.
Credo che questo sia il punto nevralgico e in assoluto più contestabile di quanto fatto, da un punto di vista di etica medica.
In primo luogo, infatti, non si vede un cenno a dati pur scientificamente documentati (e almeno in parte citati anche dall’editoriale di commento pubblicato nella stessa rivista e per nulla favorevole all’intervento svolto), quali ad esempio quelli che qui di seguito enumeriamo.
Siamo sicuri che quel tipo di trattamento darà i risultati attesi?
Se infatti abbiamo dei dati sugli effetti riguardanti la somministrazione di estrogeni ad alte dosi sulla popolazione sana, non sappiamo che cosa possa succedere su una persona affetta da una grave disabilità e per giunta con una malattia non diagnosticata del sistema nervoso centrale. Potrebbe non essere utile del tutto? Potrebbe aggravare l’andamento della stessa patologia di base? Potrebbe determinare effetti collaterali che non riusciamo a prevedere? Siamo sicuri che il vantaggio (ammesso che ci sia) sia tale da giustificare l’eventualità di un evento avverso?
Siamo sicuri che davvero serva?
In genere, la crescita somatica di soggetti con gravi cerebropatie è inferiore a quella di soggetti sani e per esempio la pubertà precoce di Ashley poteva essa stessa costituire un fattore determinante per un arresto “naturale” della crescita somatica.
Intendo dire, in altre parole, che forse la bimba non sarebbe cresciuta molto in ogni caso (l’articolo non riporta dati relativi alla statura attesa di Ashley, né considerazioni che riguardino appunto la pubertà precoce e quindi il presumibile arresto della crescita) e in relazione a questa ipotesi assumono maggior rilievo i possibili rischi connessi alla terapia. Fino ad ora, a detta degli autori, Ashley non ha avuto effetti collaterali di rilievo dalla terapia, e questo è rassicurante, ma non sappiamo cosa succederà in seguito.
Che dire dell’esperienza del dolore postintervento chirurgico?
Certo, non sappiamo quanto dolore Ashley abbia provato, però è un elemento che mi suscita forti perplessità. Sebbene non insopportabile (molte donne vengono sottoposte ad isterectomia) e controllabile con antidolorifici, mi domando se fosse davvero necessario.
Lo stesso vale per il rischio connesso a qualsiasi intervento chirurgico, specie se non strettamente necessario. A volte anche gli interventi medici diagnostici procurano sensazioni dolorose e anche un certo rischio, ma il senso, a quel punto, è quello di cercare la causa di una patologia, magari una cura, se non risolutiva almeno “di sollievo”, o ancora di pianificare i controlli successivi in base alla conoscenza della storia naturale della malattia, o ad esempio rendere noto ai genitori il rischio di ricorrenza della patologia, mettendoli nelle condizioni di scegliere circa eventuali future gravidanze.
E del resto anche nella comune pratica diagnostica e di ricerca scientifica è quanto mai importante chiedersi se davvero quanto si sta facendo è realmente necessario, utile, ragionevole, soprattutto nei confronti di chi non è in grado di capire che cosa si fa né di decidere per se stesso.
Il trattamento è davvero utile allo scopo?
Infine, trovo di grande rilievo la riflessione sollevata nel citato editoriale di commento: «Il trattamento davvero è utile allo scopo? […] Ancora più grave del fatto che la soluzione trovata possa non corrispondere all’atteso (cioè che non funzioni) o che causi effetti avversi non previsti o controllabili, ancora più grave è che questa soluzione costringa i genitori ad essere gli unici ad occuparsi della figlia, in un contesto sociale che non garantisce un supporto adeguato».
Sebbene infatti il desiderio di continuare ad occuparsi direttamente della bimba sia comprensibile umanamente nei genitori, sembra grave la mancanza di soluzioni alternative, di possibilità offerte per elaborare l’idea che la loro bimba e loro stessi facciano parte di un tessuto sociale più ampio e sufficiente a garantire i mezzi necessari per poter aiutare Ashley a casa, con gli strumenti utili allo scopo e se necessario l’aiuto di personale di appoggio; e che ciò possa magari continuare anche dopo di loro, anche quando loro, indipendentemente dalla statura e dal peso della bimba, non potranno più occuparsene perché anziani.
Può anche darsi che queste soluzioni siano state prospettate e rifiutate dai genitori e qui si torna a quelle domande che necessiterebbero di un rapporto diretto con le persone per essere realmente soddisfatte, ma non si fa menzione di tale possibilità né nell’articolo, né all’interno della discussione etica successiva.
*Neuropsichiatra infantile. Istituto Neurologico “Mondino” di Pavia.