Quella superficialità con cui si entra nella vita delle famiglie

«Pensiamo – scrivono Elisabetta Bacciaglia e Alice Imola, a proposito del contestato questionario recentemente inviato dai Comuni di Roma e di Nettuno ai caregiver familiari – che il problema di quel questionario risieda nella “leggerezza” e nella superficialità con cui è stato posto, una superficialità molto preoccupante, poiché è indicatrice del livello di sensibilità, serietà e dello spessore che si dedica alle azioni rivolte alla persona con deficit e alla sua famiglia, che hanno invece diritto ad un profondo rigore, competenza, alta qualità e rispetto»

Donna con due mani sul viso e due sulla testa

«La vergogna – scrivono Elisabetta Bacciaglia e Alice Imola – è il risultato di uno scambio sociale. Indagare unicamente il sentimento di vergogna isola da un contesto e mette al centro solamente la persona, come se tutto fosse riconducibile a se stessa e alla sua condizione»

Ancora sul contestato questionario inviato ai caregiver familiari dai Comuni di Roma e di Nettuno e successivamente ritirato (si vedano i nostri contributi nella colonnina a destra del presente testo), riceviamo e ben volentieri pubblichiamo l’ulteriore seguente contributo da Elisabetta Bacciaglia e Alice Imola, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’Associazione AEMOCON – Emozione di conoscere (Centro Psicopedagogico per lo Sviluppo del Pensiero e del Linguaggio) di Bologna.

Da qualche settimana molto discusso è il questionario inviato dal Comune di Roma ai familiari di persone con disabilità complesse. Ci sentiamo anche noi di condividere un pensiero all’interno dell’acceso dibattito che si è aperto.
Il quesito maggiormente incriminato è quello che chiede di quantificare il livello di vergogna e in particolare: «Quanto ti vergogni di tuo figlio?», «Quanto ti senti in imbarazzo per il suo comportamento?» e «Quanto risentimento provi nei suoi confronti?».
Domande che hanno toccato nervi e ferite scoperte, vissute da tanti come «l’ennesimo schiaffo, uno dei tanti, sicuramente troppi, ricevuti da chi gestisce situazioni difficilissime e nelle istituzioni fa fatica a trovare veri alleati» (da «la Repubblica»).
All’indomani del caso esploso, l’assessora del Comune di Roma alle Politiche Sociali Barbara Funari ha provato a spiegare come si è arrivati al documento, dichiarando che il questionario aveva la finalità di raccogliere dati ai fini della realizzazione di un albo dei caregiver, utile a programmare e finanziare interventi.

Ma che cosa ha infastidito così tanto? Quella domanda è stata vissuta come irrispettosa o inopportuna? È offensivo chiedere se si prova vergogna? È lecito per un genitore provarla e manifestarla? Non sappiamo. Quello che è certo è che il Comune di Roma, attraverso quel questionario, ha scelto di partire, come punteggiatura, dalla vergogna.
Nella comunicazione si fanno sempre delle scelte di punteggiatura e a seconda di dove si sceglie di porre l’accento cambia il significato dato alla comunicazione stessa e alla relazione.
Il questionario pone al centro la vergogna e chi la prova, mentre avrebbe potuto fare altre scelte, come per esempio indagare quella vergogna spostando lo sguardo verso chi o cosa mette nelle condizioni di provarla.

La vergogna è il risultato di uno scambio sociale. Indagare unicamente il sentimento di vergogna isola da un contesto e mette al centro solamente la persona, come se tutto fosse riconducibile a se stessa e alla sua condizione.
Sappiamo che la disabilità è data dall’incontro con un contesto che può essere facilitante oppure al contrario presentare barriere. Questo è quanto la prospettiva ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2001, N.d.R.] è andata formalizzando negli ultimi anni. Pensiamo quindi che sia fuorviante porre al centro del dibattito “vergogna sì/vergogna no” per misurare il livello di stress di un genitore. C’è invece da chiedersi quanto quel questionario abbia avuto la capacità e la consapevolezza di voler indagare non solo la percezione della persona, del caregiver, ma soprattutto il suo contesto di vita, la rete di supporto, le barriere e i facilitatori che acuiscono o riducono in lei disagio, stress e malessere, contribuiscono a percepirsi in mezzo agli altri e a coltivare un senso di adeguatezza o meno di sé come genitore.

È interessante, a questo punto, cercare l’etimologia del termine “vergogna”: “disagio rispetto ad una condanna sociale”.
Possiamo indagare la vergogna, quantificarla per definire il livello di stress dell’intervistato, pensare a quali interventi programmare e finanziare (assistenza domiciliare, ore di psicologo…), ma chi si occupa di indagare e intervenire nei confronti di quella condanna sociale che fa nascere e alimenta quella vergogna?
È nel sociale, nelle relazioni, nello sguardo più o meno giudicante dell’altro, che a nostro avviso vanno indagati i semi di un malessere che hanno forse fatto percepire quella domanda così inopportuna, offensiva e tanto irrispettosa nei confronti di una condizione quotidiana così complessa come quella del caregiver, ricca di una moltitudine di sentimenti ed emozioni contrastanti.
Quello che si dimentica è la reciprocità, il fatto che siamo quello che siamo anche in funzione di come gli altri ci vedono.

Un antico proverbio africano dice che «per educare un bambino serve un intero villaggio», ma quel villaggio, ricorda Papa Francesco, «dobbiamo costruirlo, come condizione per educare». Che ne è di questo villaggio quando il bambino che nasce è disabile? Chi si deve occupare di progettarlo?
E allora forse quel questionario ha davvero centrato, in maniera maldestra e inconsapevole, uno degli aspetti più difficoltosi dell’essere caregiver: la condanna sociale. Qual è la mia immagine, l’immagine di mio figlio, di mia figlia nello sguardo degli altri, a partire da quei professionisti che dovrebbero aiutarmi a costruire quel villaggio? Qual è l’immagine che mi hanno aiutato a coltivare di me come genitore? Che percezione hanno di mio figlio quelle persone che mi chiedono, senza neppure interrogarsi su come potrebbe sentirsi lui stesso a sapere che mi viene chiesto, se mi vergogno di lui?

Spesso nel somministrare questionari si ha scarsa consapevolezza del fatto che porre domande è già di per sé un’azione che porta informazioni, prima ancora di raccoglierne.
Come mai si è scelto di indagare se la vergogna è direttamente collegata al proprio figlio e non si è scelto invece di chiedere per esempio se il genitore prova risentimento o vergogna per i profesisonisti o per i supporti ricevuti? Se non siano proprio questi a generare stress, e in che modo?
La comunicazione della diagnosi, i primi confronti con la neuropsichiatria infantile, le terapie e poi l’inserimento a scuola, l’insegnante di sostegno, le ore assegnate, la didattica inclusiva, il tempo libero, la socializzazione e poi la vita adulta, il diritto alla cittadinanza attiva…., come vengono affrontati dai professionisti tutti questi tasselli della vita della persona con deficit? Quale immagine di genitore vanno a coltivare attraverso le proposte e i supporti che vengono forniti? Spesso il genitore impara presto che più pretende interventi personalizzati, più rifiuta azioni di tipo assistenziale, più sogna un’avvenire desiderato per il proprio figlio, più viene vissuto come “un genitore difficile”, problematico, che non ha accettato i limiti e la disabilità del proprio figlio… Il più delle volte impara in fretta che essere “un bravo genitore” significa affidarsi e farsi condurre nell’intraprendere un percorso istituzionalizzato che procede per pre-requisiti in una visione difettologica, dove il proprio figlio è qualcosa da tentare di “aggiustare” o comunque da accogliere in contesti speciali.
I primi anni di vita sono significativi per delineare un modo di percepirsi “bravi genitori”. Di base, dall’inizio del loro essere genitore di un figlio con disabilità, si alimenta l’idea di genitore “manchevole”, “incapace” e la vergogna è spesso una vergogna al proprio sguardo. È qui che per esempio sarebbe utile interrogarsi su cosa può sostenere e continuare ad alimentare una spinta alla vita che un genitore sente alla nascita di un figlio, aiutandolo a farla convivere con le complessità che la disabilità può proporre.
L’arrivo della diagnosi porta in famiglia un grande senso di disorientamento. Rischia di suonare come una nefasta profezia e proporre nell’immaginario un lungo elenco di tutto ciò che quel bambino, quella bambina non potranno mai fare, chi non potranno mai essere. Fin dalla primissima infanzia il genitore viene spesso “invitato” a non illudersi e accompagnato verso la rinuncia a sognare un futuro ricco, dinamico e ancora sconosciuto. Molte famiglie vivono spesso questa situazione con un grande senso di solitudine: si attiva rapidamente un supporto di tipo medico/riabilitativo, inizia l’iter delle terapie…, ma cosa fare nel giorno per giorno, per costruire e ri-costruire una relazione soddisfacente?
Le proposte da parte dei servizi, quando ci sono, sono spesso una lista di offerte che implicano la persona in contesti ad hoc: la sport-terapia, l’ippo-terapia, la musico-terapia, la teatro-terapia… fino ad arrivare al lavoro, che è anch’esso spesso terapia (percorsi socio-terapeutici).
Come professionisti e rappresentanti istituzionali non ci si può non interrogare su quanto un sentimento di vergogna del genitore abbia a che fare con questa “nefasta profezia” e con un modello teorico, superato a livello di ricerca scientifica e letteratura, ma assolutamente non superato nelle pratiche di intervento, che pensa alla disabilità come a qualcosa di legato unicamente al problema da assistere e raramente come a una risorsa.

Pensiamo quindi che il problema di quel questionario non risieda tanto in quella domanda in sé, ma nella “leggerezza” e nella superficialità con cui è stato posto, non pensando a quali informazioni stava veicolando e che, una volta “sdoganato” quel sentimento di vergogna, si lasciava poi sola la persona nel provarla.
Un questionario, così come altri tipi di indagini, non andrebbe considerato un punto d’inizio di una esplorazione, ma è di per sé uno strumento che veicola un pensiero, un modello teorico, quello che ha in mente chi lo costruisce, non è uno strumento neutrale: la scelta del tema, le domande… il collegamento che si fa tra un elemento come ad esempio la vergogna e i comportamenti inappropriati del figlio (come causa della vergogna) e l’esclusione di altri possibili collegamenti, tutti allo stesso modo possibili.
Nel sommistrare un questionario, inoltre, vanno fatte scelte attente a seconda del tema e del tipo di àmbiti che va a toccare ed esplorare, a seconda di chi è l’intervistato. Questionari su temi delicati, intimi e privati, che possono aprire riflessioni profonde nella persona alla quale sono destinati, non sempre è il caso che vengano lasciati ad una compilazione autonoma, ma andrebbero condivisi all’interno di una relazione empatica, nel confronto con un professionista che sa come ascoltare e come porre le domande, come sostenere le risposte e gli àmbiti che si possono aprire nell’originalità di ciascuna delle persone che le ricevono.
Pensiamo perciò che al di là delle giustificazioni che ne dà l’assessora del Comune di Roma Barbara Funari e del dibattito su vergogna sì/vergogna no, sia questa superficialità ad essere molto preoccupante, poiché è indicatrice del livello di sensibilità, serietà e dello spessore che si dedica alle azioni rivolte alla persona con deficit e alla sua famiglia, i quali invece hanno diritto ad un profondo rigore, competenza, alta qualità e rispetto.

Elisabetta Bacciaglia e Alice Imola sono rispettivamente psicologa e psicoterapeuta la prima, pedagogista la seconda, presidente e vicepresidente dell’Associazione AEMOCON – Emozione di conoscere (Centro Psicopedagogico per lo Sviluppo del Pensiero e del Linguaggio) di Bologna.

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