Di orgoglio disabile e perplessità

«Quando si parla di “orgoglio disabile” – scrive tra l’altro Simone Riflesso – penso che spesso alla radice dell’incomprensione ci sia una confusione sull’oggetto per il quale provare orgoglio: non la compromissione del nostro corpo-mente, quella che in documenti ufficiali viene chiamata menomazione o “impairment”, che vorrebbe indicare la condizione oggettiva che ci fa vivere un limite sulle prestazioni, ma la nostra identità, ossia la categoria nella quale capitiamo dal momento in cui siamo visti e trattati in un modo in cui vengono trattate anche altre persone come noi»

Parata del Disability Pride ("orgoglio disabile") a New York, nel luglio del 2017 (©2017, Erik McGregor/LightRocket via Getty Images)

La parata del Disability Pride (“orgoglio disabile”) a New York del 9 luglio 2017 (©2017, Erik McGregor/LightRocket via Getty Images)

Non è la prima volta che sento esprimere perplessità nei confronti del movimento del Disability Pride, a cui questo mese è dedicato. Perplessità che arrivano anche da parte di esponenti del mondo della disabilità che godono di visibilità e di un nome. Vorrei quindi dare il mio contributo a questo argomento, rivolgendomi proprio ai perplessi.

Frequentando i social network e seguendo qualche attivista con disabilità, è probabile accorgersi che per alcuni di essi, luglio è considerato il mese dell’“orgoglio disabile”. Com’è facile intuire, mi è successo. Ho scoperto che c’erano persone con disabilità come me che rivendicavano fieramente la propria visibilità, l’integrità della loro identità, che abbracciava l’appartenenza al gruppo sociale marginalizzato nel quale ero effettivamente da poco stato catapultato.
Nemmeno per un secondo ho avuto perplessità. Forse perché già avevo elaborato quel concetto, per la mia appartenenza a un altro gruppo marginalizzato e colpito da oppressione sistemica, come lo sono le persone con disabilità. Parlo dell’orgoglio della comunità lgbtqia+ (persone lesbiche, gay, bisex, trans*, queer, intereex, asessuali e chiunque non si riconosca nel rigido binarismo eteronormato maschio-femmina), il cui movimento è partito negli Stati Uniti con i moti di Stonewall del 28 giugno 1969 (non tanto distante da quello dell’orgoglio disabile in fondo, nato anch’esso negli Stati Uniti). Una vera e propria rivolta nei confronti della polizia, che per l’ennesima volta tentò di compiere un’azione punitiva in un bar frequentato abusivamente da persone queer. Che però quella notte decisero di dire basta ai soprusi della polizia e per tre giorni manifestarono apertamente che il limite era stato raggiunto.
Da allora ogni anno vediamo sempre più manifestazioni in cui persone della comunità lgbtqia+ rivendicano il proprio orgoglio di vivere serenamente alla luce del sole, senza doversi più nascondere e pretendendo i diritti che ancora vengono loro negati.
Questo movimento mi ha sicuramente aiutato non solo ad accettarmi, a detonizzare la paura che mi era stato insegnato fin da bambino a provare per sentirmi diverso, sbagliato, fuori luogo (tecnicamente, l’omofobia che avevo interiorizzato dalla società). Mi ha aiutato a riuscire a vivere pienamente e con spensieratezza la mia identità. A coltivare faticosamente il privilegio della noncuranza del giudizio altrui. A stare bene con me stesso.

Allo stesso modo, scoprire che esiste un movimento di rivendicazione dell’orgoglio disabile mi ha offerto uno spazio di elaborazione prezioso e fecondo. Mi sono sentito potenziato. Parte di una comunità di persone simili a me con le quali poter condividere qualcosa di indefinibile, ma non per questo meno palpabile.
A ben pensarci, non è un caso che il primo contenuto che ho pubblicato sui miei social nel ruolo di attivista – la prima volta che mi sono esposto – fu proprio per spiegare l’importanza dell’orgoglio disabile.
Quando si parla di orgoglio disabile penso che spesso alla radice dell’incomprensione ci sia una confusione sull’oggetto per il quale provare orgoglio: non la compromissione del nostro corpo-mente (quella che in documenti ufficiali viene chiamata menomazione o impairment, che vorrebbe indicare la condizione oggettiva che ci fa vivere un limite sulle prestazioni), ma la nostra identità. La categoria nella quale capitiamo dal momento in cui siamo visti e trattati in un modo in cui vengono trattate anche altre persone come noi.

Io non sono orgoglioso di essere tetraplegico. Non provo orgoglio per avere una lesione midollare e sperimentare i limiti di un corpo che non mi risponde più. Ma succede qualcosa quando mi accorgo che non provo vergogna, nel momento in cui gli sguardi altrui mi incontrano o si appoggiano su di me. Sento un brivido quando non abbasso lo sguardo, nell’incrociare quello di un ragazzo che trovo carino e che fatico ancora a pensare possa trovarmi desiderabile o interessante, a causa del mio corpo. Sono orgoglioso quando riesco a mettere il mio corpo rotto, bisognoso e fuori standard anche solo per un attimo da parte. Quando decido di far valere la mia voce.
So che non è facile per tutti comprenderlo, perché c’è chi la propria compromissione e identità la vive tutto sommato bene. Chi ha una compromissione che non impatta poi così tanto. Chi ha trovato i giusti supporti. La sua strada per realizzarsi. La propria dimensione. Il suo modo personalissimo di affrontare i limiti del corpo-mente e gli sguardi altrui. Chi non si sente disabile, e questa parte della sua identità non la vive, o non gli dà valore. Chi è comodo e a proprio agio, e non deve fare poi troppa fatica.
Penso che il modo più semplice per capire l’orgoglio sia partire dal suo contrario: la vergogna. Se non ne provi, di orgoglio non ne hai bisogno. Ma sarebbe bene ricordare che questo è un privilegio. Sia provare orgoglio che non averne bisogno. Perché per ribellarsi al giudizio altrui o a un’ingiustizia serve sapere di essere al sicuro. Avere una certa indipendenza, sapere che non ci saranno ripercussioni, che non si rischiano abusi né violenze. E non è una garanzia, soprattutto quando le persone dipendono fisicamente ed economicamente da qualcuno, come dalla propria famiglia o un partner.
E a chi ancora si stesse chiedendo che senso ha manifestarlo apertamente, magari fra le vie delle città, senza preoccuparsi di far troppo rumore o dare fastidio, rispondo che servirà farlo fino a quando sarà difficile vivere da “diversi”. Fino a quando ci verrà chiesto di lavorare costantemente su noi stessi, e costruire una corazza per affrontare il mondo là fuori. O dovremo rivendicare diritti che non verranno ancora riconosciuti. As alta voce, anche per chi come me aveva bisogno di uno spazio di elaborazione e riconoscimento. Anzi, se possibile, allungandogli una mano.
E il maschile sovraesteso non è casuale.

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