L’emersione della disabilità: il pensiero sbagliato dei nostri tempi

Prende il via con questo articolo un nuovo spazio fisso di «Superando.it», denominato “Disabilità: cantiere lavoro” e dedicato all’inclusione lavorativa delle persone con disabilità. Ad occuparsene è Daniele Regolo, autorevole esperto del settore, coadiuvato dai colleghi dell’Agenzia per il Lavoro Openjobmetis. Persona con disabilità uditiva fin dalla primissima infanzia, Regolo ha tra l’altro fondato Jobmetoo, piattaforma di selezione e ricerca di lavoro delle persone con disabilità. In questo primo contributo tratta un tema molto attuale e sentito dalle aziende, l’emersione della disabilità

Lavoratore con disabilitàPrende il via con questo articolo un nuovo spazio fisso di «Superando.it», denominato Disabilità: cantiere lavoro, specificamente dedicato all’inclusione lavorativa delle persone con disabilità.
Inclusione è una parola che va “di moda” in àmbito aziendale, la chiamano Diversity & Inclusion, abbreviata con l’acronimo d&i. Un conto, però, è parlarne, ben altro è metterla in pratica nei contesti lavorativi dove le persone con disabilità ancora faticano a trovare la giusta collocazione, un impiego idoneo alle capacità e attento alle specifiche esigenze di ogni individuo. E non per “compassione” o perché lo impone la legge, ma perché è giusto che ogni cittadino e cittadina, in base alle proprie competenze e possibilità, possa vivere del proprio lavoro e con questo dare un contributo al progresso del Paese, così come stabilito anche dalla nostra Carta Costituzionale.
Questa rubrica, nella quale l’argomento sarà trattato dal punto di vista concreto, è affidata ad uno dei maggiori esperti del settore, Daniele Regolo, che collabora con noi avvalendosi della sua ampia esperienza nel settore ed è coadiuvato dai colleghi di Openjobmetis, unica Agenzia per il Lavoro quotata in Borsa italiana.
Persona con disabilità uditiva fin dalla primissima infanzia, Daniele è laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Macerata e successivamente ha conseguito due specializzazioni post universitarie in Diritti ed inclusione delle persone con disabilità e in Disability manager e mondo del lavoro con iscrizione all’Albo dei Disability Manager. Nel 2013 ha lasciato un impiego a tempo indeterminato per fondare Jobmetoo, piattaforma di recruiting online (il recruiting è la ricerca e la selezione per l’assunzione di dipendenti) esclusivamente dedicata alle persone con disabilità, Società che nel 2020 è stata acquisita da Openjobmetis.
Le competenze nel tempo di Regolo si sono evolute e, prendendo forma dalla disabilità, oggi guardano alla Diversity & Inclusion a tutto tondo nell’àmbito di Seltis Hub, il polo innovativo di Openjobmetis che porta con sé le risposte alle priorità delle aziende: innovazione, sostenibilità, inclusione. L’attuale sua professionalità parte da lontano e si fonda anche sulla personale carriera lavorativa come dipendente di diverse aziende. Fino al 2013, infatti, ha collezionato impieghi frammentati di breve durata a causa della sua sordità.
Autore di alcuni libri di narrativa e sulla disabilità, è stato anche sceneggiatore per fumetti. Nel 2024 per Mondadori è uscito il suo ultimo lavoro, La formula dell’unicità. Un nuovo percorso verso l’inclusione (Mondadori, 2024, con prefazione di Alessandro Cannavò). Grande amante della vela, le regate sono per lui molto più di una semplice passione domenicale. Afferma che il mare è un luogo dove la competizione è possibile ad ogni livello e ci si può calare in una dimensione in cui la disabilità può confrontarsi con se stessa per trarre insegnamenti che valgono anche a terra. Daniele si riconosce nel motto «Non chi comincia ma quel che persevera». (Stefania Delendati)

Diamo il via a questa rubrica con un tema molto attuale e sentito dalle aziende: l’emersione della disabilità. Prima di farlo, però, ringraziamo la redazione di «Superando.it» per la proposta e la fiducia riposta in noi.
Il mondo del lavoro e della disabilità è in continua evoluzione. La tentazione di restare arroccati a vecchi paradigmi, certamente validi in passato, è sempre forte. I modi di pensare già strutturati e consolidati ci danno sicurezza, ma a volte non ci aiutano nel risolvere i nuovi problemi. O nuove sfide, come preferiamo chiamarle. Per le nuove sfide è necessario, prima di tutto, saperle riconoscere. Non è scontato. Poi, saperle accettare: e anche questo non è affatto scontato. Quindi dobbiamo lavorarli, questi stimoli al miglioramento, e gli strumenti del passato si rivelano inadeguati. Non esiste una soluzione, esiste solo tanta umiltà. Nessuno, specie in un campo come quello della disabilità, che contiene al proprio interno tante sfaccettature spesso poco familiari anche a noi addetti ai lavori, può andare lontano senza fare rete. Anche questo non è scontato. Anzi, a volte, tra sospetti e gelosie, diventa molto complicato, o addirittura impossibile.

Iniziamo quindi con un tema delicato da gestire, che sempre più tocca le aziende: parliamo, come accennato inizialmente, del fenomeno dell’emersione della disabilità in azienda tra coloro che già fanno parte dell’organico. In altre parole, le aziende vengono a sapere che, tra i loro dipendenti, ce ne sono diversi in possesso di riconoscimento di invalidità (che sia sopravvenuta durante il lavoro o che il dipendente fosse già invalido prima dell’assunzione non cambia i termini del discorso) e pensa di farli “emergere” in modo da riconoscerli ufficialmente e avvicinarsi così, come azienda, al rispetto degli obblighi.
Il primo pensiero, anche comprensibile, potrebbe essere «furbe queste aziende! Cercano di scovare qua e là i disabili che già hanno in dipendenza così non devono assumerne altri!». L’ho un po’ caricata, ma il senso è questo. Ed è proprio per tale motivo che, nelle vesti di addetti ai lavori, abbiamo sempre sconsigliato fortemente di innescare qualsiasi iniziativa in tal senso.
Vado ancora giù con le frasi immaginarie (ma non così tanto, credetemi!): «Quale interesse avrei a dire all’Ufficio del Personale che ho una disabilità? L’azienda ci guadagna, e io? Addirittura, mi trovo con un’etichetta addosso e vuoi mai che ci rimetto in qualche modo in futuro, magari essendo discriminato?». Come vediamo, costringere, sia pur con i migliori intenti, a far rivelare ufficialmente alle proprie persone d’azienda la loro condizione di disabilità può rivelarsi una pessima scelta. La fiducia ne uscirebbe irrimediabilmente compromessa, perfino se, come spesso accade, la scelta è fatta con le migliori intenzioni.

Una soluzione in realtà c’è, ed è la via regina per unire gli interessi di tutti gli attori. Parliamo degli “accomodamenti ragionevoli”. L’accomodamento ragionevole non è soltanto un istituto giuridico (non è questo il luogo per raccontarne la storia e l’evoluzione), ma una vera e propria filosofia di pensiero. Uno di quei princìpi fondanti di nuovi paradigmi che dobbiamo costruire al posto dei vecchi. L’accomodamento ragionevole mi piace immaginarlo come una mano invisibile che ti prende gentilmente il mento e ti invita a spostare lo sguardo: dalla carrozzina alla persona; dal bastone bianco alla persona; dalla condizione invisibile – che ci genera tanti timori – alla persona. E qui i giochi improvvisamente cambiano, si fanno quasi affascinanti. Per due ragioni.
Prima di tutto, perché una persona non è la sua disabilità; anche, ma non il 100%. Secondo, perché il nostro pensiero evolve e si sposta da una riflessione sterile (la condizione dell’altro, quale che sia) ad una riflessione costruttiva, che sintetizziamo nella seguente domanda: quali sono gli strumenti, gli accorgimenti, che possiamo mettere in atto affinché la persona sia (come recita la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità) partecipe del mondo che la circonda? Questo il senso dell’accomodamento ragionevole.

Ora mettiamoci nei panni del lavoratore con disabilità che non ha rivelato la propria condizione all’azienda di cui fa parte. Si renderà conto che qualcosa è cambiato. Che l’impresa per cui lavora è diventata più accogliente, che sottotitola i video, che informa i dipendenti – tutti – di lavorare su una progettazione più inclusiva. A prescindere da un interesse particolare, lo fa perché è davvero inclusiva. Questo ambiente spingerà la persona con disabilità, che molto probabilmente vive – senza accorgimenti specifici – una condizione di difficoltà, a richiedere accomodamenti ragionevoli per ottimizzare i propri processi. La persona non sta quindi rivelando la disabilità, sta chiedendo soluzioni ragionevoli. Sono due cose molto diverse. E l’azienda?
La risposta è molto semplice: l’azienda avrà fatto il suo, tutto quanto essa poteva fare per diffondere una cultura dell’accoglienza a prescindere da interessi che possono apparire personalistici. Ha fatto capire di sposare una nuova visione della disabilità che funge anche da volano per le stesse persone con disabilità: la menomazione conta sempre meno, a favore di un ampliamento dello sguardo verso una progettazione dell’ambiente (e non solo della postazione lavorativa) sempre più inclusiva.
Se poi il lavoratore o la lavoratrice con disabilità vorranno segnalare alla propria azienda di essere in possesso di un’invalidità o meno questo diventerà praticamente un dettaglio. Eh sì, quello spettro enorme di una disabilità da far emergere in modo forzato diventerà finalmente l’ombra di se stesso.

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