Disabilità e lavoro: mai perdere il contatto con la realtà

«Quando mi si dimostrerà che il lavoro – scrive Paolo De Luca, riflettendo su un articolo di Daniele Regolo pubblicato dal nostro giornale -, o se si preferisce “le opportunità”, sono tali per tutte/i, allora sarò felice di non usare più l’espressione “inclusione lavorativa”! Ma oggi si dovrebbe evitare di pensare che la nostra società stia andando verso un reale cambiamento in meglio e che ci si possa permettere una reale inclusione, a tutti i livelli, basandosi sulle nostre capacità, sulle nostre aspirazioni, senza mettere in campo un percorso in qualche modo protetto e in parte garantito»

Immagine sfuocata di persona in carrozzinaLa prima immediata considerazione dopo la lettura dell’articolo di Daniele Regolo pubblicato da «Superando.it» e intitolato Disabilità e lavoro: cinque azioni per cambiare, osare, migliorare, è stata forse la più facile e comoda, e non la ritengo solamente il riflesso automatico di un certo pensiero che guarda con paura alle innovazioni, bensì una riflessione che si manifesta di fronte a quelle questioni che non trovano una possibile fattibilità nel contesto dato, condividendo certe parti di una determinata idea, comprendendone la sfida, ma pensando con realismo che si tratta di un “libro dei sogni”.

Secondo me c’è molta verità nella chiusura dell’articolo di Regolo, quando scrive: «Non saranno questi cinque punti a far cadere l’obbligo di legge tra qualche giorno, e ogni azione richiede i giusti tempi di maturazione. Il tempo per parlarne, però, è arrivato, e tutti coloro che sono davvero interessati a rendere le persone con disabilità realmente artefici del proprio destino e le aziende sempre più produttive sono chiamati a sposare una visione che, ci si augura, in un domani diventerà realtà».
Mi trovo d’accordo, infatti, sulla questione di superare la categorizzazione e di parlare di vera inclusione; se però il discorso vira su competizione, sgravi fiscali, incentivi, gestione manageriale, accomodamento ragionevole, su una sorta di giustificazione e comprensione del “peso morale” della “coercizione dell’assunzione obbligatoria”, allora mi chiedo: ma di quali cittadini, di quali giovani e adulti con disabilità, invalidità o inabilità per cause di lavoro stiamo parlando? E anche di quale mondo del lavoro stiamo discutendo, di quali diritti e normative stiamo dibattendo?
Per dirla insomma in modo semplice: quando mi si dimostrerà che il lavoro, o se si preferisce “le opportunità”, sono tali per tutte/i, allora sarò felice di non usare più l’espressione “inclusione lavorativa”! Quando cioè sogni e bisogni saranno un ricordo lontano e avremo un mondo dove “le persone sono un unico insieme”, tutto sembrerà diverso, ma adesso, di questi tempi, non fare i conti con il pensiero unico del profitto, con sistemi che a parole puntano alla qualificazione al cambiamento, ma che nella sostanza lasciano indietro le persone vulnerabili, che sfruttano lavoro “a gratis” (stage, tirocini, avviamento e corsi verso…), rincorrendo bandi e presentando progetti a termine senza alcuna garanzia di assunzione, significa non aprire gli occhi, tapparsi le orecchie e mettere la mano in bocca, ovvero fare come le tre celebri scimmiette (“non vedo, non sento, non parlo”).

Le Associazioni che cercano di superare nel loro piccolo gli ostacoli e farsi motore dei diritti delle persone con disabilità non hanno atteso l’impulso del disability manager e quindi in questa situazione evitare collateralismi e rapporti a doppio taglio costituisce una buona prassi. Non esistono infatti garanzie di essere completamente immuni dal rischio di contaminazioni, cosicché parole come “indipendenza” e “autonomia” forse sono ancora l’antidoto più giusto e sicuro.
Ben vengano le proposte che vanno nella direzione giusta e necessaria per la ricerca del superamento della situazione, ma se perdiamo il contatto con la realtà, si rischia di sbattere ad alta velocità e di uscire fuori strada, creando illusioni, rabbia e rassegnazione.

Si dovrebbe evitare di pensare che la nostra società stia andando verso un reale cambiamento in meglio e che ci si possa permettere una reale inclusione, a tutti i livelli, basandosi sulle nostre capacità, sulle nostre aspirazioni, senza mettere in campo un percorso in qualche modo protetto e in parte garantito.
Credo infatti che la disabilità, malgrado se ne dica il contrario, sia ancora temuta, e che le persone con disabilità siano ancora considerate come un “peso sociale” e non come persone che, se adeguatamente sostenute, possono dare un contributo attivo a favore di tutti. Non per niente – tra l’altro – sono le categorie di lavoratori che per prime vengono emarginate e/o espulse dal ciclo produttivo, quando si attuano le ristrutturazioni aziendali con i tagli alle risorse umane. Per non parlare delle inadempienze e inapplicazioni delle norme di adeguamento sull’accessibilità delle postazioni di lavoro e sulla sicurezza antinfortunistica che tutela tutti i lavoratori, e non solo le persone con disabilità, evitando incidenti spesso dolorosamente mortali la cui denominazione non dovrebbe più essere quella di “morti bianche”, come se fosse colpa del fato!

Presidente dell’APIC (Associazione Portatori Impianto Cocleare) (info@apic.torino.it).

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