Il primo presidente non vedente alla Fondazione Casa del Cieco di Civate

È Franco Lisi, che è anche direttore scientifico della Fondazione Istituto dei Ciechi di Milano e curatore della nota mostra “Dialogo nel buio”, oltreché “firma” del nostro stesso giornale. «Credo molto – sottolinea tra l’altro in questa intervista – nell’introduzione delle tecnologie, che siano anche tecnologie comuni, semplici, che possono però restituire un’impagabile autonomia alle persone, anzitutto cieche, ma anche semplicemente anziane. Un ambiente adeguato alle persone con disabilità, del resto, è un ambiente confortevole per tutti»

Franco Lisi

Franco Lisi

58 anni, sposato, una figlia, Franco Lisi di Valmadrera (Lecco) è il primo non vedente a presiedere la Fondazione Casa del Cieco di Civate (Lecco).

Qual è il suo programma?
«I ciechi, prima: questo è scritto nello statuto e, con me, sicuramente accadrà nei fatti. Lavorerò con il Consiglio di Amministrazione e il Direttore, affinché venga rafforzata la specificità di questa struttura, che è un gioiello, parzialmente collocata in luoghi che risalgono al IX secolo, inoltre in un contesto ambientale straordinario, dove l’ospite può mantenere un’autonomia impensabile in città e vivere il paese, spostarsi nella natura, fino a San Pietro al Monte».

Pur non vedendo?
 «Beh, personalmente ho girato queste montagne tutte, ho persino guidato la Vespa! Sono cieco dall’asilo e, come si usava negli Anni Settanta, ho frequentato scuole inizialmente speciali, ma poi ho fatto il liceo classico a Lecco, quindi ho conseguito il diploma di programmatore a Bologna e poi due lauree, in Sociologia e in Scienze Politiche, quest’ultima a Urbino; muoversi è una sfida che il cieco supera con molteplici strumenti. Bisogna renderli alla portata di tutti, anzitutto dei più fragili: dunque, anche degli anziani».

Lei, per altro, è già direttore scientifico della Fondazione Istituto dei Ciechi di Milano: manterrà questo ruolo?
«Sì. So che a Civate avrò tutto l’appoggio per poterlo fare. A Milano curo anche attività come la mostra Dialogo nel buio, che ha avvicinato milioni di persone vedenti, al mondo dei non vedenti. Verso questi ultimi, la sfida è diffondere la cultura dell’accessibilità in tutti gli àmbiti. Il mio percorso mi ha portato, dai limiti della disabilità, a essere ciò che sono e, ora, a restituire agli altri un po’ di quanto ho imparato, attraverso le sfide, appunto, di una realtà in trasformazione».

L’ultima di queste trasformazioni è la pandemia, che ha avuto un enorme impatto sulle strutture residenziali. A Civate, come va?
 «Sui 95 posti, a causa delle limitazioni nei nuovi inserimenti, siamo scesi fino a 70 ospiti soltanto, mentre 88 è la linea di galleggiamento per non andare in rosso. Dunque, la Casa del Cieco, seppur gestita benissimo, a causa del Covid ha accumulato 300.000 euro di disavanzo. Ora, con la bussola dei conti in ordine e della caratterizzazione forte, bisogna andare verso un cambio di passo».

Perché i due aspetti sono collegati?
«Monsignor Edoardo Gilardi ha fondato una Casa del Cieco in anni in cui il tema era l’assistenza ai disabili adulti, ma non è che i ciechi ora non ci siano più: la struttura di Civate non deve perdere, ma anzi accentuare la specificità sulla disabilità visiva e farsi conoscere per questo, presentandosi a tutti i livelli, dalle Istituzioni, alla Federazione Ciechi, ai bandi per finanziamenti, ai quali può ambire proprio in quanto RSA [Residenza Sanitaria Assistita, N.d.R.] con una vocazione precisa».

Le risorse, che finalità avranno?
«Il circolo dev’essere virtuoso: investimenti creano migliorie, che attraggono utenti. Si va, banalmente, dal rifacimento del tetto all’introduzione di tecnologie, in cui credo molto: non pensiamo a computer complicati, che poi gli anziani non usano; immaginiamo, invece, di dotare la Casa del Cieco di una domotica semplice, tipo Alexa, attraverso cui il cieco possa ottenere le prestazioni più diverse (dall’accendere la luce, all’ascoltare la musica) o programmi come Audible, per la lettura, eccetera. Sono tecnologie comuni, che restituiscono però un’impagabile autonomia alla persona, anzitutto cieca, ma anche semplicemente anziana. Un ambiente adeguato alle persone con disabilità, del resto, è un ambiente confortevole per tutti».

Ma la tecnologia risolve ogni cosa?
«Certamente no. Per fare la differenza serve anche la formazione. Non ci si improvvisa, nel rapporto col disabile, nemmeno se già si è infermieri o operatori: col Consiglio di Amministrazione (in cui rientrano anche Diocesi, Unione Regionale Ciechi e Ipovedenti e Movimento Apostolico Ciechi) e il Direttore, lavoreremo affinché il capitolato non deresponsabilizzi rispetto ai fini statutari, ma anzi: per il personale della cooperativa che garantisce i diversi servizi dovrà essere sempre prevista la formazione specifica per il deficit visivo».

Cosa cambierà, dunque?
«La priorità è far sentire il cieco una persona, poi queste attenzioni creano un valore aggiunto a quello che già è, di per sé, un gioiello e rendono la RSA attrattiva, per avere nuovi ospiti, donazioni e altri finanziamenti».

E il rapporto col territorio?
«Non vogliamo una Casa del Cieco chiusa, bensì fare rete: con le altre RSA, con servizi che possiamo esportare al territorio (come l’assistenza domiciliare, e altri) e con ciò che ci può provenire da esso: intendiamo aprirci alle relazioni, alle collaborazioni, agli oratori, alle scuole».

Il presente servizio è già apparso sulla testata «La Provincia di Lecco» e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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