Vorrei intervenire anch’io sulla recente vicenda della donna disabile con difficoltà di comunicazione deceduta per non essere stata in grado di spiegare verbalmente le proprie difficoltà sanitarie al medico che l’ha visitata al pronto soccorso e della quale si è occupato nei giorni scorsi, su queste colonne, anche Giorgio Genta [testo intitolato: Da ricordare bene in caso di ricovero, N.d.R.].
Purtroppo non riesco ad essere tenera verso questa classe medica che liquida semplicemente l’argomento, affermando che «la signora non è stata in grado di comunicare i suoi effettivi disturbi e per questo non siamo potuti intervenire in maniera completa e sollecita».
Questa altro non è che la dimostrazione di una grave carenza medico-sanitaria nei confronti delle persone che hanno difficoltà a comunicare verbalmente. E non è sufficiente mettere in pratica quanto scritto da Giorgio Genta – che stimo e di cui spesso condivido i pensieri – per evitare ad uno qualsiasi dei nostri figli la stessa sorte.
Vediamo ad esempio alcuni dei punti da lui segnalati come quelli da ricordare in caso di ricovero.
Genta scrive: «In caso di urgenza, recarsi al pronto soccorso sempre tramite ambulanza». Ebbene, non sempre è così semplice reperire un’ambulanza e anche quando questo succede, la normativa attualmente in vigore non permette ad un parente di salire assieme al proprio congiunto che si trova così ad essere affidato a persone totalmente incapaci a “tradurre” i gesti, i lamenti, i pianti.
«Tenere a portata di mano un dischetto di computer (e una sua copia cartacea) con la storia clinica della persona con disabilità»: questo sarebbe il massimo per avere sempre sotto controllo ogni variazione e permetterebbe a chiunque di valutare completamente la situazione, ma, a mio parere e con le realtà che conosco, una persona con gravissima disabilità e con difficoltà di comunicazione ha una storia clinica e sanitaria così complessa che ci vorrebbero ore per consentire al medico una visione veramente efficace ed efficiente della situazione.
E ancora: «Fornire al personale medico e paramedico del pronto soccorso tutte le informazioni utili relative al paziente, sia in relazione all’evento accaduto, sia per quanto concerne le terapie farmacologiche in atto, le abitudini o le particolari necessità del paziente». Anche questo è un comportamento corretto, ma quante strutture di pronto soccorso sono in grado di affrontare le abitudini e le particolari necessità di una persona con bisogni speciali? Vogliamo fare una bella ricerca negli ospedali che ognuno di noi conosce?
«Avvisare tempestivamente il medico curante abituale (se non è già intervenuto) e metterlo in contatto con i sanitari del pronto soccorso». Da parte mia non ho mai conosciuto a Torino un medico così sollecito ed efficiente da mettersi in contatto con i sanitari del pronto soccorso!
Infine: «Stabilire rapporti preventivi con l’ospedale più vicino al domicilio e individuare uno o più medici di riferimento che conoscano la situazione clinica abituale del paziente». Per quanto riguarda la scelta dell’ospedale dove andare, se si arriva in autoambulanza non si può farla, ma si viene portati all’ospedale di appartenenza a seconda della propria residenza e non sempre è quello a cui ci si appoggia per le visite o gli esami diagnostici di controllo.
In conclusione, è possibile che siamo ormai nel terzo millennio, che la medicina abbia fatto passi da gigante, che siamo arrivati a livelli inimmaginabili solo poco tempo fa, ma che non siamo ancora in grado di istruire all’università i medici e gli infermieri a trattare pazienti con difficoltà di comunicazione, a cercare di leggere un sintomo tra i gesti, i lamenti, un batter d’occhi, ad essere più attenti e più solleciti, a preferire un esame diagnostico anche costoso al solo proprio esame obiettivo?
Questi non sono pazienti da prassi, sono pazienti speciali e hanno bisogno di essere considerati come persone e non come “patate bollenti” di cui liberarsi il più rapidamente possibile.
Questi pazienti, in pronto soccorso, devono essere considerati urgenti perché spesso hanno una soglia del dolore molto alta e se anche non si lamentano energicamente, possono essere ugualmente in gravi condizioni.
Troppo spesso vengo a conoscenza di esami anche invasivi non eseguiti per poca volontà e capacità di costruire un percorso diagnostico “fuori dell’ordinario”.
Ad esempio, una panoramica dentaria è quasi impossibile da far eseguire se non si va personalmente alla ricerca del medico più disponibile, troppe persone disabili vengono trascurate a livello sanitario per la poca professionalità e per la scarsa considerazione che si ha verso una persona dalle caratteristiche sanitarie così complesse; è invece molto più semplice dimetterle anche se non si è capito di cosa soffrono; poi, se anche la vita si conclude, a chi importa?…
Con la nostra associazione siamo riusciti a sensibilizzare e a sollecitare la direzione dell’Ospedale Sant’Anna di Torino per la realizzazione di un ambulatorio ginecologico in grado di accogliere con gli ausili necessari e con personale preparato e disponibile donne con disabilità fisiche, sensoriali e psichiche. Questa struttura è in funzione e siamo tutti molto soddisfatti.
Continuiamo invece a trovare tante difficoltà ad attivare un percorso con la stessa attenzione per quanto riguarda l’accesso al pronto soccorso per le varie specialità mediche necessarie ai pazienti disabili non collaboranti.
Quante altre vite dunque dovranno essere sacrificate prima di trovare l’attenzione delle direzioni sanitarie? La collaborazione è necessaria, i limiti possono anche esserci, ma con la buona volontà da parte di tutti si possono superare!
*Presidente Associazione x disabili gravissimi “Claudia Bottigelli”.
Via Togliatti, 25, 10135 Torino
tel. 338 3686730, combot@alice.it – www.claudiabottigelli.it.