Scoperto un nuovo meccanismo genetico che potrebbe predisporre all’insorgenza dell’Incontinentia Pigmenti (IP), una rara malattia che colpisce solo le donne: a descriverlo sulle pagine della rivista Human Mutation è il gruppo di Matilde Valeria Ursini, ricercatrice finanziata da Telethon che lavora presso l’Istituto di Genetica e Biofisica del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) di Napoli.
L’IP è una malattia genetica molto particolare: il gene responsabile – individuato nel 2000 dal gruppo di Michele D’Urso, sempre del CNR di Napoli – si chiama NEMO ed è situato sul cromosoma X. Normalmente, il gene NEMO è coinvolto in numerose attività della cellula: una sua assenza non è compatibile con la vita ed ecco perché i maschi affetti – che possiedono un solo cromosoma X – non sopravvivono. Nelle femmine, invece, poiché ne esistono due copie, il gene corretto compensa in parte l’errore, ma la malattia si manifesta: uno dei sintomi tipici, oltre al ritardo mentale, è la presenza di lesioni della pelle, dei capelli, delle unghie e dei denti. Al momento non c’è alcuna terapia risolutiva.
In circa due terzi dei casi, però, la mutazione che provoca l’IP non viene ereditata dai genitori, ma insorge spontaneamente quando l’ovocita materno e lo spermatozoo paterno completano la loro maturazione. In questo fondamentale momento del processo di generazione delle cellule germinali, infatti, i cromosomi vanno incontro a ricombinazione, ovvero ha luogo lo scambio di sequenze genetiche tra un cromosoma e il suo omologo. Durante questi scambi di materiale genetico può accadere talvolta che vengano commessi degli errori e che si perdano o si duplichino dei pezzi del gene NEMO. Ne derivano delle alterazioni che nell’embrione si traducono in quadri clinici gravi di Incontinentia Pigmenti. Non solo: esistono dei rarissimi casi di maschi che presentano parte dei sintomi dell’IP in quando sono dei “mosaici”. In questi individui, infatti, la ricombinazione avviene non nella cellula germinale, ma in una cellula di una fase precoce dello sviluppo embrionale: di conseguenza solo una parte delle cellule del loro organismo presenta il difetto genetico, rendendo così possibile la sopravvivenza.
Apparentemente si tratta di eventi imprevedibili. Ma i ricercatori napoletani hanno provato a chiedersi se invece non esistessero delle particolari configurazioni del DNA che favorissero la ricombinazione a livello del gene NEMO e quindi aumentassero il rischio di avere figli affetti da IP. Hanno quindi studiato la struttura genomica di NEMO in 91 coppie di genitori con figli malati, per andare alla ricerca di qualche variante (allele, in gergo tecnico) di questo gene che fosse particolarmente predisposto a eventi di ricombinazione. E così è stato: Matilde Valeria Ursini e il suo gruppo hanno identificato due alleli di NEMO che ricorrono fra i genitori con figli malati e che potrebbero essere utilizzati nel campo della diagnostica prenatale. Per capire, per esempio, se una coppia di individui sani che abbia già avuto un figlio malato rischi di averne un altro affetto ad una successiva gravidanza. Per questo servirà naturalmente una conferma dei dati su un numero maggiore di casi, problema ricorrente quando si studiano malattie rare.
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