Quando il Long Covid diventa una nuova disabilità: parla un paziente

Il Long Covid è una sindrome multisistemica debilitante con andamento cronico che interessa persone di tutte le età. Si sviluppa dopo l’infezione da SARS-CoV-2 e comprende vari sintomi molto variabili che persistono per più di 12 settimane consecutive fino ad anni dopo la fase acuta, comportando un generale peggioramento della qualità della vita, un diffuso danno globale alla salute, la drastica riduzione dei rapporti sociali, costringendo spesso le persone ad abbandonare il proprio lavoro. Una vera e propria nuova disabilità, quindi, della quale abbiamo parlato con una persona che ne soffre

Ombra di uomo curvo, con una mano sulla testaIl 5 maggio 2023 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha ufficialmente dichiarato la fine dell’emergenza provocata dalla pandemia di Covid-19. Il virus ha causato circa 20 milioni di decessi nel mondo e numerose problematiche sociali che stiamo tuttora vivendo, cosicché, pur essendo passati i tempi peggiori, ancora non si può parlare di vero ritorno alla piena normalità.
È il caso delle persone con Long Covid, una sindrome multisistemica debilitante con andamento cronico che interessa persone di tutte le età, anche bambini. Essa si sviluppa dopo l’infezione da SARSCoV-2 e comprende una serie di sintomi molto variabili che persistono per più di dodici settimane consecutive fino ad anni dopo la fase acuta, e vanno dalla stanchezza cronica, presente nella stragrande maggioranza dei casi, a disturbi respiratori, neurologici, cardiovascolari, per arrivare a dolori diffusi e debolezza muscolare. Ne consegue un generale peggioramento della qualità della vita, un diffuso danno globale alla salute, la drastica riduzione dei rapporti sociali perché anche un caffè con un amico diventa troppo faticoso, oltre a problemi di sussistenza delle persone che spesso sono costrette ad abbandonare il proprio lavoro.
Si può dunque parlare di una patologia che comporta una nuova disabilità, ancora poco conosciuta anche dagli specialisti. L’OMS stima che in Europa il Long Covid interessi quasi 36 milioni di persone, un europeo su trenta avrebbe quindi ancora difficoltà a riprendere in mano la propria vita; la rivista scientifica «Lancet» ricorda che sarebbero almeno 65 milioni nel mondo, secondo «Nature» forse addirittura il 10-20% di chi ha avuto un’infezione da SARSCoV-2 anche di grado lieve.
Un anno fa nel nostro Paese è nata la Rete Long Covid Italia (RLCI) (retelongcovid.press@gmail.com), un’Associazione di pazienti impegnata a portare alla luce le difficoltà che devono affrontare le persone con questa sindrome. Ne abbiamo già parlato su queste stesse pagine, quando, l’11 aprile scorso, una rappresentanza della Rete ha presenziato alla plenaria a Palazzo Madama, a Roma. Per la prima volta lo Stato italiano ha dialogato con i pazienti Long Covid, un nuovo passo avanti per ottenere consapevolezza pubblica, per chiedere attenzione e risorse.
Tra gli aderenti alla RLCI presenti in quell’occasione nella Capitale, vi era anche Manuele Mariani, classe 1979, che abbiamo incontrato per raccogliere la testimonianza di una persona che da anni convive con la sindrome, per capire meglio cosa significhi avere un corpo che non riesce a tornare com’era prima del Covid-19 perché la quantità di energia disponibile, sia mentale che fisica, non regge neppure i ritmi più leggeri della vita quotidiana.

Quando hai contratto il Covid-19? L’infezione è stata grave o moderata?
«Risultai positivo il 14 agosto 2022, presumibilmente lo contrassi durante la breve vacanza a Roma che mi concessi la settimana precedente al tampone in farmacia. La sintomatologia fu moderata durante i primi giorni, per peggiorare sempre più dopo la terza settimana».

Dopo quanto tempo hai capito che avevi sintomi “strani”? A chi ti sei rivolto e quali risposte all’inizio hai ottenuto?
«Per i primi dieci giorni ho seguito alla lettera le indicazioni del medico di base, assumendo Ibuprofene e Paracetamolo al bisogno per lenire il mal di testa. Quando però mi recai alla farmacia per fare il tampone di uscita, mi resi conto che stavo ancora poco bene e nei giorni successivi i sintomi quali insonnia, spossatezza, “fame d’aria” e capogiro peggiorarono. Per altro il tampone fattomi in farmacia risultò negativo, ma si rivelò essere un “falso negativo” perché due giorni dopo, recatomi al Pronto Soccorso, lamentando il peggioramento dei sintomi, mi rifecero il tampone che si confermò positivo».

Come hai saputo dell’esistenza del Long Covid? Te ne ha parlato un medico, hai trovato informazioni su Internet?
«Dell’esistenza del Long Covid sapevo dal 2020, perché durante il primo lockdown i media non parlavano d’altro che dell’epidemia (poi pandemia), stilando quotidiani bollettini di morti e/o contagiati. La condizione di quei contagiati che non tornavano pienamente in salute era discussa già nelle prime fasi del contagio, e già allora denominata dai media “Long Covid”».

Per la tua esperienza personale, il Long Covid è una condizione stabile oppure si aggrava nel tempo? Si è capito il ruolo dei vaccini e le persone vaccinate rischiano meno di incorrere in questa malattia?
«Da studi pubblicati in questi anni la maggiore incidenza del Long Covid pare prevalere nei soggetti non vaccinati, ma non credo esista uno studio esaustivo e definitivo, anche perché le statistiche non possono che essere parziali. Il Long Covid nella mia esperienza è peggiorato finché non ho assunto una terapia specifica. Si deve tenere conto che da molti è vista come una sindrome ad andamento cronico, e come tale alla lunga può fare insorgere comorbidità direttamente o indirettamente dipendenti. D’altro canto le percentuali ipotizzate dei pazienti Long Covid paiono aggirarsi fra il 10% e il 20% del totale dei contagiati da SARSCoV-2 [se ne legga, ad esempio, a questo link, N.d.R.]».

Il Long Covid riguarda anche i bambini?
«Sì, c’è un’ampia letteratura specialistica e non (si veda ad esempio a questo link) che conferma l’emergenza del Long Covid pediatrico. Uno dei medici che è in contatto con Rete Long Covid Italia è un pediatra che opera a Roma, il dottor Danilo Buonsenso».

Ci puoi raccontare qual è la tua attuale situazione clinica?
«La mia attuale situazione è altamente invalidante perché, pur essendo tornato ad essere autonomo e a vivere nel mio appartamento (vivo da solo a Bologna), le energie giornaliere sono appena sufficienti per scendere al market sotto casa a fare provviste e mantenere contatto con medici specialisti, fare visite ed esami; non riesco a lavorare né tanto meno ad avere una normale vita sociale. Infatti, la PEM [malessere post-sforzo, N.d.R.] e la difficoltà di esercizio non riguardano solo lo sforzo fisico (a volte minimo), ma anche quello cognitivo. Nei primi mesi sono dovuto tornare nel Modenese, ospite di mio fratello maggiore, perché faticavo anche ad essere autonomo dentro le quattro mura di casa e il 95% della giornata lo passavo seduto o sdraiato. Successivamente ho deciso di tornare a vivere da solo perché non sopporto di dover dipendere da altri, essendo la mia sintomatologia lievemente migliorata e perché qui a Bologna ho accesso tranquillamente a pochi minuti da casa alla farmacia, al market, alla banca, al medico di base, al laboratorio di analisi e a una serie di specialisti che dove abita mio fratello non sarebbero così facilmente raggiungibili.
Attualmente il mio quadro sintomatologico include cefalea, acufene, occhi secchi con conseguente bruciore, affanno, dolore al petto, tachicardia, intolleranza ortostatica [aumento della frequenza cardiaca quando una persona si sposta da una posizione all’altra, N.d.R.], capogiro e difficoltà di concentrazione (il cosiddetto Brain Fog), il che comporta impossibilità di leggere e/o elaborare un testo scritto per poco più di una manciata di minuti, senza sentire il bisogno di riposare distogliendo gli occhi dalla/o pagina/schermo per riposare almeno mezz’ora. Sono stato diagnosticato con intolleranza ortostatica, tachicardia POTS [sindrome da tachicardia posturale ortostatica, N.d.R.], presenza di gliosi da infiammazione [processo riparativo che consegue alla distruzione delle cellule nervose, N.d.R.] alla risonanza magnetica dell’encefalo, ipertensione arteriosa, alta concentrazione nel sangue di anticorpi normalmente associati a patologie autoimmuni».

Come si svolge una tua giornata tipo? A quali attività hai dovuto rinunciare?
«Mi alzo molto tardi la mattina perché dopo il sonno tutti i sintomi sono peggiori e solo a pomeriggio inoltrato noto solitamente un miglioramento che mi permette di fare due passi sotto casa, in genere per fare provviste o recarmi dal medico o al laboratorio analisi per fare esami. Appena sveglio faccio una colazione leggera e prendo i medicinali che mi furono prescritti in Germania nel mese di marzo del 2023. Dopodiché, se il giorno prima non ho fatto sforzi eccessivi e se ne ho le forze, scendo sotto casa per tentare di tenermi un minimo in movimento camminando molto lentamente, tenendo sempre d’occhio l’orologio digitale che misura parametri come battito cardiaco e frequenza respiratoria. Finite le commissioni di cui detto, torno a casa per pranzare e guardare se ho ricevuto e-mail o messaggi in chat dai medici, dai centri di analisi o dagli amici della Rete Long Covid Italia. Se ne ho le forze rispondo immediatamente oppure rimando alla sera o al giorno dopo. Successivamente sto a riposo finché non arriva l’ora di cena, dopo la quale solitamente aumenta la mia capacità di stare davanti al monitor o al telefono per una conversazione con parenti o amici pazienti prima di coricarmi per la notte. Da notare che evito qualsiasi contatto ravvicinato e incontro con amici e parenti dal vivo (particolarmente nelle stagioni fredde), poiché la dottoressa Jaeger in Germania e il professor Guaraldi a Modena mi hanno consigliato di evitare situazioni che potrebbero portare al ricontagio, per evitare il peggioramento dei sintomi».

Il Long Covid causa una disabilità che ha anche un peso psicologico, le persone non vengono credute quando raccontano ciò che sentono e vengono trattate come “malati immaginari” a volte anche dai medici. Raccontaci questo risvolto.
«Come detto in precedenza, il peso psicologico è già alto perché la mia situazione delicata mi spinge a tutelarmi autoescludendomi dalle usuali interazioni sociali. Vedo con un qualche costanza solo mio fratello, non più di una volta la settimana, ma preferibilmente all’aperto. Ma sicuramente è presente uno stigma sociale per i pazienti Long Covid che è in gran parte imputabile ai media, i quali da mesi tendono a minimizzare o a negare la condizione, e a una grossa fetta dei medici italiani che ancora sottovalutano o non riconoscono la patologia, per altro non ancora definita in modo univoco dalla comunità medica internazionale. Fortunatamente sono riuscito a trovare medici come i già citati dottoressa Jaeger, internista tedesca, e il professor Guaraldi, infettivologo al Policlinico di Modena, che sono molto informati in merito e stanno tentando di approntare strategie diagnostiche e terapeutiche atte a migliorare la situazione dei pazienti Long Covid, nonostante ad oggi non esista una terapia riconosciuta come standard dalla comunità medica».

Appunto, quali trattamenti esistono attualmente per il Long Covid?
«Per far seguito alla risposta precedente, non parlerei di vere e proprie terapie, ma piuttosto di strategie per contenere e gestire i sintomi presenti nel singolo paziente, perché, come pare assodato, la lista dei sintomi è lunghissima e non è detto che due pazienti Long Covid presentino gli stessi sintomi, nonostante alcuni, come la stanchezza cronica, paiano essere universali.
Nel mio caso, i sintomi elencati in precedenza sembrano indicare un problema disautonomico [condizione in cui il sistema nervoso autonomo presenta malfunzionamenti, N.d.R.] e autoimmune [disfunzione del sistema immunitario che induce l’organismo ad attaccare i propri tessuti, N.d.R.], ciò che però difficilmente rientra nella casistica usuale delle conosciute patologie disautonomiche e autoimmuni. Purtroppo ci troviamo ad oggi in un terreno inesplorato e possiamo capirne di più solo sperimentando su noi stessi pazienti le terapie che paiono più plausibili, se necessario anche partecipando a studi clinici, come ho tentato di fare più di una volta in questo anno e mezzo di malattia».

In Italia esistono statistiche sulle persone affette da questa nuova patologia?
«A parte le stime di cui ho parlato in precedenza, non mi risulta che esistano nel nostro Paese statistiche ufficiali sul numero e la percentuale dei pazienti Long Covid».

Ci sono ambulatori pubblici Long Covid? E se sì, come si effettua l’accesso?
«Sì, esiste una lista di tali ambulatori disponibile sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità. Personalmente ne ho visitati solo due: quello di Bologna (“ambulatorio Neuro-Covid”) all’Ospedale Bellaria e quello del Policlinico di Modena; quest’ultimo mi ha assistito con un approccio di tipo multidisciplinare. L’accesso è pubblico e non è particolarmente difficile, per lo meno nell’ambulatorio di Modena, dove mi è stato garantito accesso dopo avere richiesto appuntamento telefonicamente. L’accesso all’ambulatorio di Bologna è stato invece più difficoltoso, tanto da spingermi a dover richiedere una visita in libera professione con i neurologi cui la gestione dell’ambulatorio era affidata.
Pertanto, anche in base alle esperienze dei pazienti Long Covid con cui sono in contatto diretto, non mi sento di affermare che queste strutture disponibili sul territorio nazionale abbiano finora saputo rispondere alle esigenze di quanti soffrono della mia condizione. Un’indagine più accurata e puntuale sarebbe necessaria per esprimere un giudizio complessivo sull’operato di tali ambulatori».

Quanto sono importanti i contatti tra pazienti e di cosa hanno urgente bisogno le persone con Long Covid?
«Personalmente avevo account attivi solo su uno paio di social e li ho prontamente disattivati appena le condizioni di salute sono peggiorate fino a cronicizzarsi; la difficoltà ad interagire in relazioni reali era troppa per poter sostenere anche quelle virtuali. Nonostante ciò, ho conosciuto tramite scambi di contatti su chat Whatsapp le persone che in poche settimane hanno messo in piedi la Rete Long Covid Italia, il che mi ha permesso di entrare a farne parte e ad essa cerco di dare il mio contributo. Ciò di cui abbiamo bisogno è ampiamente espresso in un comunicato stampa diffuso dalla Rete stessa il 6 aprile scorso. In sintesi, quello che chiediamo è di essere ascoltati, supportati e coinvolti attivamente nelle decisioni politiche, sanitarie e lavorative. Siamo stanchi di essere considerati “malati immaginari e invisibili” e chiediamo riconoscimento. La Rete Long Covid Italia chiede che lo Stato riconosca il Long Covid come sindrome cronica e debilitante, che investa nella ricerca, nelle collaborazioni internazionali e negli studi clinici nel territorio, che offra supporto per i pazienti e le loro famiglie in àmbito sociale, lavorativo e scolastico, che dia accesso equo a test diagnostici e terapie di supporto e che coinvolga i pazienti nella ricerca e nei tavoli di lavoro istituzionali».

Qual è la situazione negli altri Paesi in merito alla presa in carico dei pazienti e sul fronte della ricerca scientifica?
«A quanto è dato sapere, diversi Paesi stanno svolgendo studi clinici riguardo a farmaci contro il Long Covid, tuttavia alcuni Stati europei come la Germania sono più attivi di altri, sia per quel che riguarda la ricerca che per l’investimento di fondi e risorse pubbliche.
Del funzionamento degli “ambulatori Long Covid” stranieri poco si sa, ma da quanto si legge sui social e nelle chat, a detta dei pazienti di Francia, Paesi Bassi, Regno Unito, Stati Uniti e Spagna, essi non sono particolarmente apprezzati né utili ad affrontare le problematiche che i malati si trovano a vivere quotidianamente».

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