Per una Legge adeguata sui caregiver familiari

«Tutti coloro che sono animati dall’obiettivo di ottenere una Legge adeguata sui caregiver familiari sollecitino le Istituzioni a dare risposte in uno spirito di collaborazione e dialogo da parte di tutti i soggetti in causa»: è la conclusione di Alessandro Chiarini e Caterina Landolfi in questo contributo di riflessione, che prende le mosse dall’articolo “Quali tutele predisporre per la figura del caregiver?”, pubblicato alcuni giorni fa su queste stesse pagine

Caregiving familiare

Una caregiver familiare insieme a una propria congiunta con disabilità e a un amico a quattro zampe

Anche se indirettamente, ci siamo sentiti chiamati in causa dall’articolo Quali tutele predisporre per la figura del caregiver?, pubblicato da «Superando.it» a firma di Simona Lancioni.
L’articolo è molto preciso riguardo i riferimenti normativi e le citazioni delle fonti e alcune parti di esso sono pienamente condivisibili, mentre altre ci hanno lasciato piuttosto perplessi.

Tralasciando di trascrivere l’attuale definizione di caregiver familiare, comunque già riportata nel citato articolo e ripresa dalla Legge 205/17 (articolo 1, comma 255), come CONFAD (Coordinamento Nazionale Famiglie con Disabilità), chiediamo ormai da anni alle Istituzioni il riconoscimento del caregiver familiare convivente, impostazione ampiamente criticata in quello stesso articolo.
La nostra proposta di considerare il caregiver familiare convivente come destinatario di tutele deriva esclusivamente dal fatto che sono la tipologia di caregiver più esposta al rischio di esclusione sociale, lavorativa ed economica, con la conseguente compromissione del proprio benessere psicofisico. Riconoscere tutele e sostegni al caregiver familiare convivente rappresenta un primo step. In seguito sarà possibile individuare provvedimenti adeguati in modo proporzionale al grado di impegno di cura dei caregiver familiari.
Il nodo fondamentale è proprio l’individuazione della platea dei destinatari e le Istituzioni, fino a questo momento non hanno mostrato alcun segno di voler studiare seriamente il fenomeno. Eppure l’ISTAT potrebbe essere lo strumento adatto, a partire dai dati INPS.
Quando la disabilità irrompe in una famiglia ne sconvolge tutte le dinamiche. Ne rimangono coinvolti tutti i componenti: i coniugi, i fratelli e sorelle o i figli. L’enfasi che mettiamo su questi aspetti non è dovuta ad una «visione idealizzata della famiglia e dei rapporti familiari» (citazione dall’articolo Quali tutele predisporre per la figura del caregiver?), dove non esistono conflitti e scorre soltanto amore incondizionato, ma al contrario vogliamo mettere in evidenza che sono le proprio le famiglie a sostenere il carico dell’impegno di cura soprattutto nei casi gravi e complessi.
D’altra parte questo aspetto è riconosciuto anche nel recente rapporto del marzo scorso, presentato da Gerard Quinn, relatore speciale dell’ONU sui diritti delle persone con disabilità [se ne legga anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
Non si vuole quindi negare l’esistenza di famiglie in cui si consumano violenze, ma in questi casi gli assistenti sociali dovrebbero essere in grado di individuarle e agire di conseguenza.
Come CONFAD chiediamo il riconoscimento del ruolo del caregiver familiare convivente non perché appoggiamo le Istituzioni nel voler “cristallizzare” un welfare familistico, una visione idealizzata della famiglia tradizionale nella quale madre/moglie/sorella/figlia si sacrificano per il bene del proprio congiunto, ma è esattamente il contrario: perché sosteniamo l’emancipazione dall’esclusivo ruolo di cura a cui sono legati ancora oggi, mentre scriviamo, i caregiver familiari conviventi. Sosteniamo che la famiglia tutta ha bisogno di tutele, compreso l’altro partner, anche se non è caregiver familiare prevalente. Anzi, accade sempre più spesso che il lavoro di cura sia maggiormente condiviso tra i due genitori e di conseguenza andranno studiati strumenti ad hoc (in questo caso parliamo di famiglie con figli con disabilità). Si dovranno inoltre distinguere i caregiver familiari che si prendono cura di persone con disabilità, minorenni o maggiorenni, da quelli che si prendono cura di persone anziane o di malati oncologici, perché, e dovrebbe risultare abbastanza intuitivo, ognuno di loro ha bisogno di sostegni di tipo diverso.
Non di rado troviamo famiglie monogenitoriali, famiglie dove c’è un caregiver familiare prevalente, famiglie dove convivono fratelli/sorelle, famiglie di figli che si prendono cura di persone anziane. Da queste battute si può evincere che si tratta di un mondo davvero complesso e finora, da parte del Legislatore, non c’è stato un reale e concreto impegno per fare chiarezza.

Sempre nel citato articolo si auspica la «cura condivisa con la comunità» che rischia, ad oggi, di essere ancora un’utopia. Lo spostamento su un piano ideologico della discussione usando espressioni come «impostazione familistica», «volontà di cristallizzare un welfare familistico» e «visione idealizzata della famiglia» contro «cura condivisa con la comunità» inquinano fortemente il tentativo già difficile di fare chiarezza. Anche la cosiddetta comunità può rappresentare una visione idealizzata della realtà. Esiste ad oggi una reale inclusione scolastica dei bambini e ragazzi con disabilità? Esiste una reale inclusione lavorativa? Esiste una capillare realizzazione su tutto il territorio nazionale di progetti di vita indipendente?
Spesso, nei casi di disabilità complessa sono sempre le famiglie che, organizzandosi in cooperative, riescono ad elaborare efficaci progetti di vita autonoma, anche lavorativa. Purtroppo non tutte le famiglie hanno le capacità e/o i mezzi per realizzare tutto questo e i Servizi continuano a non dare risposte. Nei casi più complessi, le famiglie chiedono interventi domiciliari personalizzati in alternativa ai ricoveri in strutture, ma non ricevono risposte. «Se avete bisogno di un sollievo chiedete un ricovero», si sentono rispondere dai Servizi e allora con pazienza il genitore (ad esempio) deve spiegare che il proprio bambino non è un pacco postale, che ha bisogno di rimanere nella propria casa. Si chiedono vacanze per i propri figli e si ottengono proposte di ricoveri in strutture, che non verranno accettate. Si chiedono terapisti di cui il proprio figlio ha fiducia e arrivano terapisti o infermieri sconosciuti che creano più disagio che aiuto. Mandare poi il proprio figlio con disabilità complessa a scuola non è affatto scontato. E anche andare al pronto soccorso è complicato, non trovando personale adeguatamente formato per accogliere persone cosiddette “non collaboranti”. Gli esempi virtuosi si contano sulla punta delle dita.

Come CONFAD, dunque, chiediamo il riconoscimento del caregiver familiare convivente perché complice inconsapevole di una visione familistica idealizzata? No, è esattamente per il motivo contrario, è la società tutta, comprese le Istituzioni, che ancora oggi scaricano mollemente e ipocritamente i buchi del sistema assistenziale sulle famiglie.
La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità affida agli Stati Parti e non alle famiglie l’organizzazione di un’assistenza adeguata alle persone con disabilità. Gerard Quinn, nel suo già citato rapporto del marzo scorso, mette nero su bianco che le donne e le ragazze hanno finora pagato maggiormente il carico di cura familiare rinunciando ai personali obiettivi nella vita e ai propri diritti pensionistici. Da qui la necessità di creare politiche di welfare più egualitarie. Quinn sostiene anche che gli Stati devono assumersi finalmente la responsabilità di colmare i gaps in services [“divari nei servizi”, N.d.R.] e mettere un focus adeguato sulla relazione tra cure informali gestite dalle famiglie e i supporti formali. Dev’essere anche chiaro che il supporto attivo da parte della famiglia debba essere condiviso dalla persona non autosufficiente. Princìpi condivisibili.
Secondo CONFAD, per la realizzazione di questi intenti deve giocare un ruolo fondamentale la redazione di un progetto di Vita Indipendente che sia realmente studiato e condiviso da tutte le parti in causa. Attualmente sono ancora i Servizi a fornire soluzioni standardizzate e i rapporti di forza sono ancora a loro favore. Ci aspetta in tal senso un lungo lavoro di adeguamento a queste direttive da parte di tutte le parti, non ultime le Istituzioni.

E ancora, nell’articolo cui facciamo riferimento si sostiene che, dando priorità al welfare familistico, «verrebbe escluso/a dalle tutele il/la caregiver liberamente scelto da una persona con disabilità fuori dalla cerchia familiare». Come CONFAD chiediamo una partecipazione attiva della persona con disabilità e della sua famiglia alla stesura del progetto di Vita Indipendente che comprende sicuramente la libera scelta della stessa persona con disabilità di fare ricorso o meno al supporto di un caregiver familiare oppure di un esterno; non da meno chiediamo però che sia garantita la scelta di usufruire di assistenza diretta, indiretta o integrata, una libera scelta che ad oggi non è garantita.
Nel caso del “caregiver” scelto al di fuori della famiglia, secondo l’accezione data a questo termine nell’articolo Quali tutele predisporre per la figura del caregiver?, dobbiamo precisare che non ci si riferisce più ad un/a caregiver familiare, ma ad una prestazione di lavoro. Parliamo cioè di badanti, di OSS (Operatori Socio Sanitari), di assistenti. Comunque di personale che può essere inquadrato e tutelato.
Per quanto poi riguarda il familiare non convivente che continua a prendersi cura del proprio caro, sicuramente ne va riconosciuto l’impegno e andrà supportato con provvedimenti adeguati, ma verosimilmente, in quel caso, la persona con disabilità avrà un progetto di vita già avviato. Di conseguenza il familiare non convivente ha bisogno di tutele diverse da quelle del convivente.

Per concludere, è fondamentale che le Istituzioni riconoscano che allo stato attuale esistono dei gaps in services, per usare ancora l’espressione di Quinn, colmati dai caregiver familiari conviventi. Con l’auspicio che in futuro questi ultimi saranno gradualmente lasciati sempre meno soli attraverso meccanismi di flessibilità e conciliazione. Al momento sembra una realtà ancora lontana dalla sua realizzazione e l’impegno delle famiglie, definito spesso come “Durante Noi”, non solo dal punto di vista organizzativo, ma anche e soprattutto per il sostegno psicologico e l’affetto, non è, ad oggi, giustamente riconosciuto e valorizzato.
Purtroppo ci rendiamo conto che culturalmente ci vuole molto tempo per mettere in pratica i princìpi descritti nelle leggi e per quanto riguarda i caregiver familiari, una legge neanche esiste.

Un’ultima considerazione sui toni adeguati da usare per rivendicare il diritto ad esistere dei caregiver familiari conviventi. Le Associazioni e i Comitati esprimono punti di vista e può capitare di usare espressioni forti, ma l’intento non è quello di far percepire il proprio caro come un “peso” come si sostiene nell’articolo Quali tutele predisporre per la figura del caregiver?. Anche in questo caso, semmai, si tratta del contrario. I propri cari diventano un impegno insostenibile proprio perché le Istituzioni e i Servizi sono assenti. I toni forti sono rivolti a questi ultimi, non certo verso i propri congiunti.
L’auspicio è che tutti coloro che sono animati dall’obiettivo di ottenere una Legge adeguata sui caregiver familiari sollecitino le Istituzioni a dare risposte in uno spirito di collaborazione e dialogo da parte di tutti i soggetti in causa.

Rispettivamente presidente e componente del Comitato Esecutivo del CONFAD (Coordinamento Nazionale Famiglie con Disabilità) (segreteria@confad.eu).

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