I tagli ai servizi e il budget che comanda: un’amarezza che percorre l’Italia

«È un po’ “terapeutico” – scrive Stefania Delendati – dire “mal comune, mezzo gaudio”, sapendo che magari altri navigano nelle stesse acque. Ti fa sentire meno solo. Rimane però l’amarezza. Questo, infatti, è un racconto di amarezza, non di denuncia, o meglio, è la denuncia dell’amarezza delle persone con disabilità di qualsiasi età, voci di spesa per il servizio sanitario pubblico e quindi molto (troppo) spesso vittime di tagli a prestazioni assistenziali e riabilitative»

Realizzazione grafica con una grande forbice che sembra tagliare una carrozzinaSi dice “mal comune, mezzo gaudio”, è la saggezza popolare consolatoria che tiriamo fuori ogniqualvolta c’è un problema e sappiamo che qualcun altro sta vivendo più o meno la stessa situazione. È un po’ “terapeutico” sapere che altri navigano nelle stesse acque, ti fa sentire meno solo. Rimane però l’amarezza, quella non te la può levare nessuno, neppure i detti della nonna.
Questo, infatti, è un racconto di amarezza, non di denuncia, o meglio, è la denuncia dell’amarezza delle persone con disabilità di qualsiasi età, voci di spesa per il servizio sanitario pubblico e quindi molto (troppo) spesso vittime di tagli a prestazioni assistenziali e riabilitative.

Stiamo parlando di cittadini con patologie croniche invalidanti e progressive senza speranza di guarigione, l’unica speranza sono le terapie costanti per rallentare il decorso della malattia. Hanno un grave difetto questi pazienti cronici: non pagano il ticket, ne sono esentati dalla nascita e per tutta la loro vita, e per tutta la vita hanno necessità di essere seguiti. La gratuità delle cure è la grande conquista del Servizio Sanitario Nazionale italiano su cui dobbiamo spezzare una lancia, una conquista di civiltà sancita dalla Legge 883 del 23 dicembre 1978, che ne ha riconosciuto ufficialmente i principi di universalità, uguaglianza ed equità. Poche nazioni al mondo possono vantarsene, guardate per credere il documentario Sicko di Michael Moore. E tuttavia ombre scure da tempo si allungano sul sistema, inutile negarlo, fredde “ragioni” di budget prendono il sopravvento sul diritto alla salute.
A farne le spese sono soprattutto i pazienti cronici che non portano soldi nelle casse delle Aziende Sanitarie che infatti, già nel nome, hanno messo al primo posto la parola “aziende” perché il primo obiettivo è far quadrare i conti come in una qualunque impresa.
Certo, è giustissimo vigilare sugli sprechi, ma dovrebbe essere un’azione volta a migliorare i servizi, indirizzare le risorse verso coloro che ne hanno bisogno. Si possono considerare questi cittadini e cittadine con disabilità gli “sprechi” su cui mettere in azione la forbice?
Alcune Regioni sono più virtuose, altre meno, ma la tendenza percorre lo Stivale da Nord a Sud, isole comprese.
Non leggete i comunicati stampa ufficiali né i siti Internet, lì parole come équipe multidisciplinari, presa in carico globale eccetera fanno pensare ad una sorta di “Paese delle meraviglie”, dove chi ha determinate esigenze trova sempre la risposta giusta alle proprie necessità. La verità è che la persona con disabilità maggiorenne viene lasciata sola, piano piano, scaricata gradualmente da chi avrebbe l’obbligo di salvaguardarne la salute, per quanto possibile, nessuno pretende miracoli.

Ti dicono che sei un adulto stabile, perfino quando la cartella clinica parla di malattie degenerative, pertanto destinate al peggioramento, non alla stabilità. Te lo dicono anche quando hai in mano la raccomandazione di un medico riguardo a terapie riabilitative indispensabili, insieme a quelle farmacologiche, per bloccare la progressione della patologia che il farmaco da solo non può fermare, e lo ha scritto lo specialista, non te lo sei inventato. Te lo dicono anche quando, comprendendo le difficoltà di un servizio con poco personale, ti rendi disponibile a fare un po’ meno sedute di riabilitazione rispetto a quelle prescritte, ma chiedi di continuare il trattamento domiciliare perché per te lo spostamento casa-ambulatorio e tutte le manovre necessarie per salire e scendere dal lettino sono troppo stancanti e la fatica annullerebbe il beneficio riabilitativo. Ma il budget comanda e in alcune zone d’Italia ne fanno le spese anche i bambini, il che è ancora peggio. Quasi ovunque al raggiungimento della maggiore età la persona con disabilità deve arrangiarsi in qualche maniera, per la sanità pubblica è come se i 18 anni ne decretassero la guarigione. Qualche controllo una tantum è quanto di meglio si può sperare. Ad arginare il fenomeno, la buona volontà di alcuni singoli operatori sanitari che, malgrado oggettive difficoltà, fanno l’impossibile per garantire la prosecuzione delle terapie, cercano di mettere una buona parola, fino a quando a loro non mettono i bastoni tra le ruote. Sono loro, sempre più, che danno concretezza alla Legge 883, credendo nel valore del proprio lavoro.
Lo smantellamento progressivo dei servizi per le patologie croniche obbliga le persone con disabilità a rivolgersi al settore privato, pagando s’intende, e per la salute questo ed altro, ci mancherebbe, meglio tagliare altre spese nel bilancio familiare, ma non queste. Già, e chi non può permettersi terapie privatamente? Ci sono anche situazioni economiche molto difficili, famiglie dove si tira a campare con un solo piccolo stipendio, qualche sussidio se va “bene”, perché un familiare deve rinunciare a lavorare per assistere il proprio caro con disabilità. Magari viene chiesta pure una compartecipazione a certe spese, ad esempio per qualche ora di assistenza personale per alleviare il lavoro di cura. Prima lo dicevo che è tutto gratis o quasi, ma dietro quel “quasi” si nasconde un mondo di cavilli che si abbattono sulle famiglie più in difficoltà. Già, ripeto, e chi non può permettersi di pagare?
Chiudo con questa domanda e con tutta l’amarezza che ne consegue, perché alla fine, dopo averci sbattuto il muso per una vita intera ed essersi trovati di fronte ad un muro di gomma che ogni volta ti rimbalza indietro, ci si sente anche un po’ trattati come una perdita di tempo. E non è più sufficiente ripetersi “mal comune, mezzo gaudio”.

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