“Sferette invisibili” come strategia nella lotta alle distrofie muscolari: a proporre tale tecnica è uno studio finanziato da Telethon (pubblicato dalla rivista «Molecular Therapy»), curato da un gruppo di ricerca coordinato da Alessandra Ferlini, del Dipartimento di Medicina Sperimentale e Diagnostica dell’Università di Ferrara.
Il lavoro dà un contributo importante al filone di ricerca che mira a convertire la forma più grave di distrofia muscolare, quella di Duchenne, in quella più lieve, la distrofia di Becker [una scheda su queste malattie, che appartengono entrambe al gruppo delle cosiddette “distrofinopatie”, è disponibile cliccando qui, N.d.R.].
In entrambe queste patologie, le persone affette presentano mutazioni a carico del gene della distrofina, proteina essenziale per il funzionamento dei muscoli: a fare la differenza nella gravità della patologia è il tipo di mutazione, che nella Duchenne determina l’assenza completa della distrofina, mentre nella Becker porta alla produzione di una proteina più corta, ma comunque funzionale.
Uno degli approcci terapeutici più promettenti in questo senso è quello che sfrutta la capacità di piccole molecole di RNA, gli oligonucleotidi antisenso, di legarsi a specifiche regioni di un gene (esoni) e di mascherarle così al “macchinario cellulare” addetto alla sintesi delle proteine.
Con tale approccio, detto exon-skipping, la mutazione che nella Duchenne determina l’arresto della sintesi proteica viene “bypassata” e si ha la sintesi di una proteina più corta del normale, ma comunque parzialmente funzionante (come appunto nella distrofia di Becker).
Dopo il successo sul modello animale e sulle cellule di pazienti affetti, l’exon-skipping ha dato risultati incoraggianti anche nel primo studio pilota effettuato sull’uomo, i cui esiti erano stati pubblicati alla fine del 2007 da un gruppo di ricerca olandese.
Si tratta certo di un risultato importante per la ricerca di terapie delle distrofie muscolari. Rimane cruciale, però, trovare un sistema in grado di proteggere gli oligonucleotidi antisenso, evitando che essi si degradino prima di esercitare il loro effetto terapeutico, ma anche facendo in modo che non si accumulino dove non serve, soprattutto nei reni. Ed è qui che entra in gioco il gruppo di ricerca coordinato da Alessandra Ferlini, che propone un sistema di trasporto innovativo: invece che “nudi”, i piccoli segmenti di RNA vengono somministrati legati a nanoparticelle, piccolissime sferette (dell’ordine di grandezza del miliardesimo di metro), costituite da un materiale inerte (il polimetilmetacrilato, già utilizzato nelle protesi articolari) e quindi assolutamente incapace di stimolare alcun tipo di rigetto o risposta immunitaria.
Come dimostrato dai primi risultati ottenuti sul modello animale, questa strategia permette di trasportare efficientemente il farmaco in vari organi e tessuti, inclusi quelli più colpiti dalla malattia, ovvero cuore e muscolo scheletrico: proprio in queste sedi, infatti, i ricercatori hanno riscontrato un ripristino della sintesi della distrofina, correttamente localizzata sulla membrana cellulare.
Inoltre, l’uso delle nanoparticelle ha permesso di ridurre di ottanta volte le dosi del farmaco, mantenendo però l’effetto terapeutico. Così trasportate, le molecole vengono infine protette dal degrado e hanno quindi un effetto più prolungato: un aspetto importante se si considera che una terapia di questo genere durerebbe per tutta la vita del paziente.
A questo punto il prossimo passo sarà quello di ottimizzare la strategia, in prospettiva di una sperimentazione sull’uomo: attualmente il gruppo di ricercatori sta testando altri quattro tipi di nanoparticelle, ancora più piccole e con maggiore capacità di legare il farmaco.
«È importante dimostrare – spiega Alessandra Ferlini – che queste nanoparticelle non provocano effetti collaterali: si tratterebbe così di una terapia sicura, utilizzabile anche tramite vie di somministrazione non invasive. Pur non correggendo il difetto genetico, si potrebbe infatti superarne gli effetti in modo soddisfacente in termini di qualità della vita».
Un risultato promettente, dunque, e completamente made in Italy: tutte le fasi del lavoro – dalla produzione delle nanoparticelle agli esperimenti sugli animali – sono state infatti condotte da ricercatori italiani, all’interno del gruppo di lavoro coordinato dall’Università di Ferrara, che ha coinvolto anche gli Atenei di Padova, del Piemonte Orientale, di Bologna e il CNR. (Ufficio Stampa Telethon)
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La principale associazione che in Italia si occupa di distrofie muscolari, sin dal 1961, è la UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), tel. 049 8021001, direzionenazionale@uildm.it.