Noi, che abbiamo rinunciato al “progetto”

«Un cambiamento importante viaggia spesso con una fatica, una sofferenza, un dolore. E quando non è dolore, è riflessione e pensiero su quello che si lascia e perché»: comincia così la sensibile e profonda testimonianza – destinata a far discutere – del padre di un ragazzo con sindrome di Down, che dopo quattro anni in una scuola “normale”, è stato iscritto in una scuola “speciale”. Ed è il racconto di un “fallimento” che non può non far riflettere

Bimbo fotografatao di spalle, che va a scuola«Dopo quattro anni in una scuola “normale” – ci scrive il papà di Giulio, ragazzo con  sindrome di Down – abbiamo deciso di iscrivere nostro figlio a una scuola “speciale”. È stata un scelta complessa, meditata e condivisa e quelle che seguono sono alcune riflessioni scaturite da parte mia nei giorni immediatamente successivi a quella decisione. Un pensiero fatto, a mio parere, di grandi speranze ma anche di grande fatica».
È a questo punto facile immaginare – e noi stessi lo auspichiamo – quanto potranno far discutere le riflessioni di questo genitore, alle quali abbiamo senz’altro deciso di dare spazio – compresa la citazione iniziale – anche per la grande profondità e sensibilità con cui sono state espresse.

«Il nostro problema non è la materia umana, che c’è; è piuttosto la mancanza di una forma su cui modellare l’esuberanza della materia. Il problema non è il valore dei singoli, ma l’armonia tra tanti singoli di valore» (Vito Mancuso, La religione civile che manca all’Italia, in «la Repubblica», 13 gennaio 2009).

Un cambiamento importante viaggia spesso con una fatica, una sofferenza, un dolore. E quando non è dolore, è riflessione e pensiero su quello che si lascia e perché. È un passaggio obbligato, anche quando il “nuovo” verso cui si è deciso di guardare ci piace, ci convince, ci rassicura.
Quarant’anni fa, in una delle borgate più emarginate di Roma, mia madre – fresca direttrice di una scuola elementare dove la povertà e la disperazione erano all’ordine del giorno -, con una passione e una dedizione che non ho mai più incontrato, combatteva e vinceva la sua battaglia affinché nella sua scuola si affermasse e vincesse l’integrazione di tutti con tutti. Era una “rivoluzione”, e la sua battaglia le ha causato ferite e sofferenze; ma so che, ancora oggi, a 91 anni, ripercorrerebbe strenuamente la stessa strada. Ero un adolescente o poco meno, ma fu una lezione di vita e di partecipazione che non dimenticherò mai.

In questi giorni di ricordi e di pensieri, ciò che più mi risuona di quell’esperienza era la modalità: dove cioè la passione prevaleva sulla ragione, ma non sulle regole, ovvero: «Scelgo ciò che ritengo giusto e fa star bene e crescere la società; con questa certezza so di essere in grado di trovare le regole all’interno delle quali calare questo progetto. E se le regole non ci sono o non sono abbastanza adeguate al progetto, spenderò tutte le energie necessarie affinché siano predisposte nuove regole o adattate nel miglior modo possibile quelle esistenti».
Ma quel progetto, quella focalizzazione sul bene del bambino e sul valore del suo completo inserimento nel mondo dei “normali” rimaneva in cima al pensiero e alle azioni di mia madre.
Sono passati tanti anni e tanti sono stati i passi avanti fatti, sia nella regole che nella naturale predisposizione di tutti verso questo senso di civiltà e di società aperta, accogliente e solidale.
Così, per una di quelle combinazioni che penso a volte confermino come non ci sia magari un “disegno divino”, ma che tutto non possa essere così casuale, dopo tanti anni mi sono ritrovato sulla stessa barca.
Per questo (e non solo) dedico qualche ora e qualche riga a riflettere su questi anni, su questi quattro anni vissuti in una scuola dove Giulio ha trascorso le sue giornate e dove è cresciuto.

Abbiamo fallito. Tutti. Tutti e indistintamente. Io come padre, noi come famiglia, le insegnanti, i dirigenti, le famiglie, gli operatori che a vario titolo seguono e curano Giulio. Abbiamo fallito perché la buona volontà e le energie che abbiamo speso non erano sufficienti, in quantità e qualità. Abbiamo fallito perché sentirci impotenti fino al punto da iscrivere Giulio in una scuola “speciale” (lo stesso tipo di scuola contro cui mia madre si batteva quarantanni fa), significa che avevamo “speso” tutto quello che potevamo spendere. Abbiamo fallito perché abbiamo rincorso le nostre tensioni personali e i nostri “ruoli” senza metterci abbastanza in gioco e in discussione.
Lungi da me concludere che, avendo fallito tutti, non ci siano responsabilità individuali. Anche in casi di fallimenti “collettivi”, ciascuno, a mio parere, deve sentirsi responsabile e a suo modo provare a immaginare dove, come e quando ha commesso un errore, una leggerezza, una mancanza.
Da parte mia ne ho riconosciute tante, non ho remore nel cercare di capire e provare a migliorare. Ma non siamo “singoli” messi assieme casualmente. Non basta un esame di coscienza personale per una qualche forma di catarsi individuale. Se siamo assieme, e assieme lavoriamo sui nostri figli, non è solo perché questi crescano sani ed educati. È perché la somma dei nostri agire sia superiore alla somma aritmetica di ciascuno di noi. Quello a cui partecipiamo con il nostro contributo si chiama “società”, si chiama “sistema valoriale”, si chiama “partecipazione” e “solidarietà”. E se qualcosa non funziona, non possiamo permetterci il lusso di difenderci dietro un «ho fatto quello che potevo», «ho fatto il mio dovere», «ho fatto tutto con responsabilità». Dobbiamo avere o trovare la forza e il coraggio di andare oltre, di metterci in discussione, di interagire con gli altri che partecipano al progetto, di criticare e di ascoltare le critiche.

Ci sta tutto e non lo nego: il dolore e la ferita non rimarginabile di noi genitori, la dignità professionale degli insegnanti e degli operatori, il rispetto delle regole dei dirigenti, la partecipazione emotiva dei genitori e dei loro figli. Ma questa volta non è bastato. Questa volta abbiamo rinunciato al “progetto”.
Proviamo tutti ad avere un po’ più di “visione”, a credere maggiormente in un sogno. Giulio starà bene, crescerà e vivrà serenamente dentro alle sue difficoltà e alle sue fatiche. Tutti noi staremo bene e ce la caveremo egregiamente, pur nell’altalena delle gioie e dei dolori. Non è in discussione il nostro “orticello” di singoli, già ben concimato e al tempo stesso impegnativo e a volte faticoso. Proviamo tutti a farci un regalo e a confrontarci; momenti come questi sono dei veri e propri “passaggi a vuoto” dentro a quella “visione” che fa parte di noi stessi.
Non è un incidente di percorso e nemmeno un episodio casuale; è sintomo di qualcosa di più profondo e intenso, non perdiamo l’occasione di rifletterci.

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