Come ovviare agli attuali “mali” del nostro modello inclusivo

«Ho seguito con interesse – scrive Gianluca Rapisarda – la proposta presentata recentemente sulla cosiddetta “cattedra inclusiva” o “mista”, in riferimento all’inclusione degli alunni e alunne con disabilità. Nello spiegare perché non la ritengo né utile né praticabile, colgo anche l’occasione per un’analisi a trecentosessanta gradi dell’attuale sistema di inclusione scolastica del nostro Paese, ad ormai quarantasette anni dall’avvio di essa, con l’emanazione della Legge 517/77»

Alunno con disabilità in carrozzinaHo seguito con molto interesse la proposta presentata il 25 gennaio scorso a Roma da un gruppo di esperti guidati dal professor Dario Ianes sulla cosiddetta cattedra inclusiva, da loro definita come una «proposta dirompente», in quanto tutti i docenti dovrebbero occuparsi della propria classe. Questo mi dà lo spunto per un’analisi a trecentosessanta gradi dell’attuale sistema di inclusione scolastica del nostro Paese, ad ormai quarantasette anni dall’avvio di essa, con l’emanazione della Legge 517/77. Si tratta infatti di un modello, quello dell’inclusione degli alunni/studenti italiani, sicuramente “pioneristico ed antesignano”, che ha fatto scuola e che ci viene invidiato e imitato in Europa e nel mondo, non senza, però, delle smagliature e delle criticità, dalle quali occorre partire e delle quali bisogna dunque oggi prendere atto, al fine di individuare modalità e strumenti per superarle.

Innanzitutto, entrando subito nel merito della proposta della cosiddetta “cattedra inclusiva” o “mista”, devo dire che, a primo acchito e ad una lettura veloce e superficiale, essa potrebbe sembrare ai più estremamente innovativa o addirittura “rivoluzionaria”. Tuttavia, se ne approfondiamo i contenuti e ci addentriamo più nel dettaglio, ci si accorge come l’eventuale attivazione di tale proposta sia al contrario in conflitto con la legislazione “inclusiva” del nostro Paese, a partire dalla citata Legge 517/77 e dalla Legge 104/92, fino al Decreto Legislativo 66/17, che ha previsto il lungimirante principio del “sostegno del contesto” a supporto dell’inclusione scolastica e non solo la preziosa figura del docente di sostegno, anche se poi il sempre più crescente ricorso ai tribunali da parte delle famiglie dei ragazzi con disabilità, a rischio persino di una “deriva giudiziaria”, ha corroborato in loro, nel corso dei decenni, l’idea distorta che l’inclusione dipendesse soltanto dall’insegnante specializzato e dall’aumento delle sue ore di lezione, anziché dal “contesto”.
Al riguardo, infatti, va immediatamente evidenziato che il sistema italiano d’inclusione scolastica, così come si è andato configurando in questi quarantasette anni, ha senz’altro perso lo “slancio” iniziale e, soprattutto, ha perso di vista proprio lo spirito del “sostegno del contesto” che è il vero “cuore” della Legge 517/77, involvendosi verso quello che io definisco il “peccato originale” del sostegno in Italia e cioè la china verso la delega al solo docente specializzato del processo d’inclusione degli allievi con disabilità.

In questi ultimi decenni, cioè, con buona pace dei “civilissimi” e sacrosanti princìpi pedagogici e didattici della “scuola per tutti e per ciascuno”, del “sostegno” alla classe, della flessibilizzazione dei contesti, della personalizzazione degli insegnamenti-apprendimenti, dell’autonomia didattica e delle pari opportunità (previsti dalle citate Leggi 517/77 e 104/92, oltreché dal Regolamento dell’Autonomia Scolastica del 1999 e, specialmente, dal modello “bio-psico-sociale” delineato dall’ICF dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 2001 e dall’articolo 24 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità), che stanno alla base dell’autentica cultura dell’inclusione, il Ministero non se l’è sentita di “rivoluzionare” il sistema, investendo su servizi alternativi di supporto del contesto. L’unica cosa che ha saputo fare è stata quella di “limitare” la propria attenzione soltanto sulla centralità del docente di sostegno, indipendentemente dalle sue competenze specifiche, quale unico “garante” del processo di inclusione (la media nazionale si è ormai assestata sul rapporto di un docente ogni due alunni, come d’altra parte previsto dall’articolo 19, comma 11 della Legge 111/11), senza che ciò abbia però elevato la qualità dell’istruzione degli studenti con disabilità.
Tutto ciò è avvenuto in quanto, negli ultimi decenni, la specializzazione dei docenti per il sostegno da “monovalente” (attenta cioè alle specifiche disabilità e ai bisogni educativi dei singoli) è divenuta invece “polivalente” e general-generalista.

Oltre alla scarsa formazione e preparazione specifica dei docenti di sostegno, non va neppure trascurata la loro “precarietà” professionale per cui, sulla base di una recente indagine della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), oggi il 40% dei docenti per il sostegno sono “in deroga”, con incarichi precari e neanche specializzati sul sostegno. Ciò significa, quindi, che quasi la metà dei docenti di sostegno italiani non è specializzata.
Tale precarietà e ambiguità dei docenti per il sostegno, che non hanno un ruolo specifico e ben definito, fa si che essi, di sovente, lo utilizzino soltanto come “scorciatoia” per transitare e trasferirsi nelle cattedre per le quali sono abilitati, preferendo dunque i ruoli “ordinari”.
A questa ambiguità dello status giuridico, si affianca poi quella della funzione: docente esperto della didattica disciplinare o docente di supporto al docente della disciplina per l’attuazione di una didattica inclusiva? Infatti, a causa della predetta inadeguata formazione specifica, il docente per il sostegno è privo di tali competenze didattiche e pedagogiche speciali e inclusive e, quindi, viene spesso considerato dai colleghi curricolari come una sorta di “professore di serie B”, inducendolo ad un perenne “complesso di inferiorità” nei loro confronti, a rischio di frustrazione professionale continua, se non quasi di burn-out.
D’altra parte, la mancata formazione “generalizzata” di tutto il personale scolastico sulle singole disabilità, come tra l’altro previsto dall’articolo 24 della Convenzione ONU, non consente ai docenti disciplinari di avere né le conoscenze né le competenze idonee e adatte per un’efficace presa in carico dell’insegnamento e della valutazione degli alunni/studenti con disabilità, favorendo così la quasi “scontata” e inevitabile loro “deresponsabilizzazione” e delega al collega di sostegno del processo d’inclusione scolastica.

Per garantire un’effettiva inclusione, pertanto, è necessario che vi siano funzioni ben definite, ossia che al docente titolare spetti il diritto-dovere di insegnare la disciplina e di verificare gli apprendimenti di tutti gli alunni della classe, compresi quelli con disabilità, funzione questa che non potrà più delegare a nessuno; al docente di sostegno non competano né l’insegnamento disciplinare, né la verifica degli apprendimenti dell’alunno con disabilità, ma il dovere di supportare il collega titolare, il Consiglio di Classe e l’intero contesto, suggerendo metodologie e indicazioni didattiche appropriate, oltreché fornendo gli strumenti volti a rendere efficaci gli insegnamenti destinati agli alunni con disabilità.
Ma per perseguire il predetto auspicabile risultato, non serve istituire “cattedre miste o inclusive”. Infatti, risulta molto difficile pensare ad un professore titolare di Matematica o di Latino o addirittura di Informatica che si cimenti nell’approcciarsi all’insegnamento e alla valutazione dello studente con disabilità, senza possedere una preparazione adeguata e una formazione specifica ad esempio sulla letto-scrittura in Braille, sulla LIS (Lingua dei Segni Italiana) o sulla CAA (Comunicazione Aumentativa e Alternativa). Così come risulterebbe alquanto complesso per un insegnante per il sostegno “avventurarsi” nell’insegnamento delle singole discipline, essendo privo di efficaci conoscenze curricolari, metodologiche e docimologiche, per poterlo fare con cognizione di causa.

Ma, in particolar modo, ritengo quella della “cattedra mista” una soluzione didattica sbagliata, perché più centrata sulle esigenze di “gratificazione” professionale dell’insegnante che sugli effettivi bisogni formativi specifici degli alunni/studenti con disabilità, i quali, con siffatto modello scolastico, rischierebbero di non avere né un sostegno, né insegnamenti disciplinari idonei e sufficienti.
Sia l’insegnante curricolare che quello di sostegno, invece, per poter davvero assicurare un effettivo e reale processo di inclusione, necessiterebbero di investimenti strutturali e a lungo termine da parte del Ministero sulla formazione specifica sulle singole disabilità, senza la quale le uniche “vittime sacrificali” di proposte sperimentali e poco praticabili, sarebbero esclusivamente gli studenti con disabilità e la qualità della loro istruzione.
Al riguardo, a mio avviso, fa specie che, di fronte a tali lapalissiane ed evidenti carenze del sistema, quanto stabilito dall’articolo 1, comma 971 della Legge 178/20 e dal suo Decreto Attuativo (Decreto Ministeriale 188/21), e cioè «interventi di formazione obbligatoria di 25 ore per il personale docente impegnato nelle classi con alunni con disabilità, finalizzati a garantire il processo di inclusione e l’effettiva “contitolarità” della presa in carico dello stesso alunno», non sia stato prorogato dai successivi provvedimenti normativi in materia di sostegno e, in ogni caso, dovrebbe essere oggetto di attenzione da parte del Ministero in sede di imminente emanazione dei Decreti Applicativi del Decreto Legislativo 66/17.

Per concludere, al fine di ovviare agli attuali “mali” del nostro modello inclusivo, mi sento di sposare in toto la Proposta di Legge sollecitata da Salvatore Nocera e promossa dalla FISH già nel 2021, che prevede, rispetto alla formazione iniziale, che tutti i futuri docenti curricolari debbano seguire almeno un semestre accademico, ossia 30 CFU (Crediti Formativi Universitari) sulle tematiche dell’inclusione. Da questo punto di vista, tuttavia, occorrerebbe intervenire per modificare il testo del Decreto del Presidente del Consiglio (DPCM) del 4 agosto 2023 attuativo della Legge 79/22 che dispone soltanto 10 Crediti Formativi sulla Didattica e la Pedagogia e 3 per quelle dell’inclusione per i futuri insegnanti.
Una volta rafforzate quindi le competenze dei docenti curricolari, la predetta Proposta di Legge prevede pure, ed è questo il vero “pilastro portante” di essa, l’istituzione di apposite classi di concorso per gli aspiranti docenti per il sostegno, con un percorso specifico potenziato loro rivolto. Nel dettaglio, si prevede un percorso unico o parallelo, di durata triennale, nei corsi di laurea in Scienze della Formazione Primaria. Al terzo anno, senza “condannare” nessuno ad “ingabbiarsi” nel ruolo di sostegno, gli studenti potranno scegliere se specializzarsi nel sostegno o proseguire nel percorso ordinario. Al termine del quinquennio, gli studenti stessi dovranno svolgere un sesto anno “abilitante” con un TFA (Tirocinio Formativo Attivo) presso contesti e realtà veramente inclusivi.
A mio avviso, la Proposta di Legge della FISH è sicuramente preferibile a quella dei promotori della proposta dell’attivazione della “cattedra inclusiva” o “mista”, in quanto consentirebbe al docente di sostegno di cogliere i classici “due piccioni con una fava”, acquisendo finalmente competenze anche di insegnante curricolare e, soprattutto, quelle competenze didattiche e pedagogiche speciali e inclusive che lo farebbero finalmente diventare “mediatore didattico per l’inclusione”, capace di contribuire all’elaborazione di un Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF) inclusivo e di rendere accogliente l’intero contesto. Solo così, una volta definite le funzioni e i reciproci ruoli, la “contitolarità” tra docente di classe e docente di sostegno potrà essere reale e sviluppare una progettazione didattica efficace ed inclusiva.

Ma non finisce qui! Infatti, chi scrive, ha sempre ritenuto che per un efficace processo di inclusione degli alunni con disabilità sia indifferibile un “sostegno diffuso del contesto”, da assicurare, anche e in special modo, ai sensi dell’articolo 13 della Legge 104/92 e dell’articolo 3 del Decreto Legislativo 66/17, attraverso il riconoscimento giuridico del profilo dell’assistente all’autonomia e alla comunicazione e del tiflologo.
Da non vedente, sottolineare con il presente contributo l’importanza delle due predette fondamentali figure educative non significa voler aumentare i professionisti del processo d’inclusione scolastica e volerlo “medicalizzare”, né eliminare l’insostituibile ruolo inclusivo dei docenti specializzati, ma riaffermare e riproporre una volta per tutte la necessità della specificità pedagogica e tiflologica, per assicurare il pieno successo formativo ed effettive pari opportunità ai ragazzi con disabilità visiva del Terzo Millennio.

Dirigente scolastico del Convitto Nazionale G. Piazzi di Sondrio (dirigentescolastico.gpiazzi@cnpiazzisondrio.edu.it).

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