Nel bene e nel male la scuola pubblica c’è stata

«Può essere matrigna – scrive Simonetta Morelli – e non dev’essere un parcheggio. Ma la scuola pubblica è l’unico ambiente inclusivo per legge, ove si sono scoperti e giocati i talenti dei ragazzi con disabilità: difficoltà e bellezza, progettualità e visioni; tentativi, cadute e rialzate. Nel bene e nel male la scuola pubblica c’è stata»

Bimbo che va a scuola, fotografato di spalleL’anno della Maturità è quello in cui tutti i ragazzi attrezzano sogni e li riempiono di un potere sfacciato. Dopo gli esami, faranno i conti con la vita da adulti e non sempre potranno frequentare l’università. Impegnarli sarà un problema, perché il mondo del lavoro, oltre che avaro di occasioni, è spesso avaro di solidarietà. Un mondo occupato in gran parte da persone di mezza età non può essere accogliente per un diciannovenne; a tratti è cinico con chi è disorientato, a maggior ragione se ha una disabilità cognitivo-relazionale e non è in grado di rappresentare se stesso.

A questo pensavo qualche mese fa, nei primi giorni di giugno, mentre con il professore di sostegno ponevamo le fondamenta per il nuovo e ultimo anno scolastico di mio figlio, per accompagnarlo fuori dalla scuola senza abbandonarlo.
A fine agosto, con una telefonata – voce affranta e tanto coraggio –  il professore mi ha informato che non avrebbe accompagnato il suo alunno per alcuni mesi: un infortunio lo stava costringendo a un lungo ricovero ospedaliero. Per alcuni secondi non sono riuscita a parlare. Poi ho aspettato che un supplente accettasse la nomina solo per alcuni mesi, fino a Natale, sperando che mio figlio accettasse il cambiamento. E quel dolore che prende la forma appuntita della rabbia, quella dei genitori degli alunni con disabilità, quest’anno non l’ho voluto ascoltare. Piuttosto ho voluto rivendicarlo per me, ma al contrario, non per lamentarmi, ma per ricordare, per lasciarmi traboccare di riconoscenza e per mettere in fila i fondamentali che la scuola pubblica mi ha lasciato.

La scuola narrata dai media è un colabrodo, una pena, quasi un’indecenza in cui talvolta “singoli eroi” salvano situazioni disperate. Oppure in cui vittime innocenti subiscono ingiustizie tanto più odiose quanto più è delicata la condizione di fragilità. Narrazioni estreme che si incardinano su dati di realtà innegabili, ma che non rendono conto della vita vera delle persone che, è pur vero, non senza difficoltà fanno la fatica di cercare soluzioni. E magari le trovano, non perfette, ma di buon senso, in una “normalità” di strepitosa bellezza che non fa notizia, ma c’è.
Quando gli organi d’informazione vorranno cercare le storie di fatica e bravura incastonate in un sistema così difficile da vivere, avranno reso un servizio vero, creando reti di condivisione e conoscenza della realtà tutta, non a metà: quella della scuola buona che c’è sempre stata.
Qui si sono scoperti e giocati i talenti dei ragazzi con disabilità: difficoltà e bellezza, progettualità e visioni; tentativi, cadute e rialzate. Nel bene e nel male la scuola pubblica c’è stata. Per questo l’anno scolastico che sta chiudendo definitivamente non un capitolo, ma quasi tutta la vita di mio figlio è così importante.

A scuola ho imparato anch’io, da madre, a non contrappormi, ad ascoltare ulteriormente, proprio quando il timore di una delusione rodeva testa e anima come un tarlo, lasciando posto solo alla “pancia”. Abbassare le difese per prima ha permesso ai miei interlocutori di abbandonarsi del tutto al rapporto con la famiglia. Insieme abbiamo imparato a fare squadra, per il bene del loro alunno, mio figlio.
La scuola pubblica può essere anche matrigna, a causa di dirigenti che non rendono conto dello spirito delle leggi che, in Italia, hanno preceduto di molti anni la Convenzione ONU  sui Diritti delle Persone con Disabilità.
La scuola pubblica è l’unico ambiente inclusivo per legge; qui i ragazzi con disabilità si appropriano con decisione -anche se più lentamente rispetto agli altri – della propria identità civile. “Studente”, c’è scritto alla voce professione, sulla carta d’identità di mio figlio, anche se non è in grado di studiare. È un cittadino di questa Repubblica che a diciotto anni ha ricevuto il certificato elettorale, anche se non è in grado di votare. Il valore civile di queste scelte dello Stato è altissimo.
La scuola non è un parcheggio. Infatti a scuola si verifica e si mette in discussione anche l’operato di tutti quei professionisti che hanno accompagnato l’alunno fin lì. Le scuole che non si adeguano, che non accolgono, che non prevengono gli atti di bullismo, che eseguono il compitino dell’applicazione della legge, realizzano una pseudo-inclusione, diventando, quelle sì, parcheggi per ragazzi.
E anche stare a scuola è una competenza da acquisire, per tutti gli alunni, con e senza disabilità. Per i ragazzi con disabilità intellettivo-relazionale quel pugno di anni scolastici è tutto ciò che avranno in termini di relazione autentica. Per questo il principio dell’inclusione scolastica ci riguarda tutti insieme: dirigenti scolastici e insegnanti curricolari, non solo di sostegno; genitori di tutti gli alunni, non solo di quelli con disabilità. Non sentirsi direttamente coinvolti nelle questioni, non è una giustificazione.

Ai genitori che verranno, non ho altro da lasciare se non la testimonianza di diciotto anni combattuti e appassionati, che rendo volentieri per amore di giustizia nei confronti di chi a vario titolo ci ha accompagnato. Sia testimonianza d’amore per i ragazzi della Quinta D che trascorrono quotidianamente le giornate con il loro compagno più fragile. Sia scudo per tutti i docenti appassionati e i dirigenti visionari che ho conosciuto, anche fuori dalle scuole di mio figlio. Sia d’auspicio per chi arriverà dopo di noi, ogni anno, per tutto il tempo che verrà.

Il presente testo è già apparso in InVisibili, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “La scuola pubblica, madre o matrigna degli studenti con disabilità?”. Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti, per gentile concessione.

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