Non tutto può essere accessibile, ma per tutti il diritto al bello è sacrosanto

«A proposito dell’intenzione di Vittorio Sgarbi, nuovo sottosegretario alla Cultura, di riportare la “Pietà Rondanini” di Michelangelo nella sua precedente collocazione del Castello Sforzesco di Milano, da dove era stata trasferita in un’altra ala dell’edificio, fra l’altro per essere più fruibile alle persone con disabilità, se è vero – scrive Antonio Giuseppe Malafarina – che non si può rendere tutto accessibile a rischio di deturpare la natura dei luoghi di cui si pretende l’accessibilità, è altrettanto vero che il diritto per tutti a partecipare al bello è sacrosanto»

"Pietà Rondanini", Milano

La “Pietà Rondanini” di Michelangelo, nella sua attuale collocazione all’interno del Castello Sforzesco di Milano

Anni di battaglie, incontri, commissioni, l’approvazione del Ministero dei Beni Culturali e Sgarbi vuole riportare la Pietà Rondanini nella sua precedente collocazione, cioè la Sala degli Scarlioni del Castello Sforzesco di Milano, da dove era stata trasferita in un’altra ala dell’edificio, fra l’altro per essere più fruibile alle persone con disabilità.
Il Sottosegretario alla Cultura non è nuovo a uscite improvvide nei confronti delle persone con disabilità e io non amo dare nulla per scontato.

Il mio maestro Franco Bomprezzi si batté lungamente per una collocazione accessibile della Pietà michelangiolesca, fino a gioirne del trasferimento, come di altri successi in materia di accessibilità museale nella città di Milano. A questo link è l’articolo pubblicato da Alessandro Cannavò per il blog InVisibili del «Corriere della Sera.it», ove si racconta della sua visita con Simone Fanti alla Pietà contesa, ricordando Franco Bomprezzi.
Ora, sempre restando in tema Bomprezzi, ne ricordo un articolo pubblicato su queste stesse pagine (Sgarbi, la disabilità e le “capre ignoranti”), dove parlava delle estrose uscite del più catodico esperto di cultura del nostro Paese in merito alla considerazione che le città con le scale mobili sarebbero «degne di nani, zoppi ed handicappati» [affermazioni poi oggetto di precisazioni da parte di Sgarbi, N.d.R.]. E che una persona di cultura pensi che le scale mobili favoriscano l’accessibilità delle persone di bassa statura o in carrozzina apre a una considerazione di lana caprina: l’amore per l’arte non dovrebbe instillare l’amore per la conoscenza, ovvero per un approccio competente al tema che si affronta?

Ma Sgarbi non è cattivo. È un personaggio che assolve al suo ruolo. Per quanto mi riguarda, lungi da me considerarlo qui per essere una “persona parlante”, mi concentro piuttosto sul suo essere un “personaggio eloquente”. Nel suo proferire straborda, travolge. È il suo mestiere, è quello per cui viene spesso chiamato sui media ed è la cornice che non deve distrarre dalla tela.
La sua tela è fatta di idee, qualcuna michelangiolesca e qualche altra pollockiana, alle quali è cortese dare ascolto.

Cosa vuol dire, dunque, riportare la Pietà Rondanini nella sua collocazione originale? Da quello che evinco da un articolo del «Corriere della Sera.it», probabilmente la pensata è frutto dell’amor di storia o, se vogliamo, di tradizione, per cui è bene tutto ciò che finisce dove era in principio. L’opera lì era stata collocata e lì deve tornare.
Artisticamente parlando, l’obiezione dei fautori del trasferimento sta nella collocazione più consona dell’ideale di pietà espresso dalla scultura, ora immersa nell’Antico Ospedale Spagnolo del Castello Sforzesco, ove, ai tempi di Michelangelo, erano condotti i soldati malati di peste destinati alla morte. Per altro, secondo Claudio Salsi, storico sovrintendente dello Sforzesco, la nuova collocazione ha dato maggiore visibilità all’opera, come si legge nel citato articolo del «Corriere della Sera.it», in merito al lapidario commento del sindaco Giuseppe Sala sulla marmorea disposizione: «Va bene dov’è!».

Che il posizionamento della Pietà fosse studiato non è una novità, dacché è stato frutto di discussioni e studi che, come detto all’inizio, hanno ottenuto l’avallo del Ministero dei Beni Culturali con input alla discussione dell’archistar Stefano Boeri.
Sullo sfondo quindi di una disfida fra “capre” e “boschi verticali”, il cuore della discussione sarebbe opportuno tornasse alla fruibilità e alla valorizzazione dell’opera. Perché è vero che non si può rendere tutto accessibile a rischio di deturpare la natura dei luoghi di cui si pretende l’accessibilità, ma è altrettanto vero che il diritto alla partecipazione al bello, e per i puristi dei diritti parlerei di diritto di partecipazione ai beni culturali, è sacrosanto.

Dice l’articolo 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: «Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici». E non voglio nemmeno scomodare l’articolo 30 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, a proposito di partecipazione alla vita culturale.
Dal momento che l’uomo colto sa che nati non fummo a viver come bruti, direi che se ridiscutere la ricollocazione dell’opera finanche a renderla itinerante da un Governo all’altro a seconda dei punti di vista renderebbe l’itinere ragionevolmente ridicolo quanto politicamente plausibile, tale peregrinare dovrebbe considerare che se non è lecito moralizzare la storia (di ieri) con gli occhi di oggi è altrettanto vero che non è possibile guardare al bene di oggi con gli occhi di ieri.
In buona sostanza, nel momento in cui esistono soluzioni per rendere fruibile qualcosa a tutti rispettandone la dignità, tornare indietro nasconde molte insidie. Come un ritorno all’età primitiva, fra zotici zelanti e ovini belanti.

Il presente contributo di riflessione è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Quale spazio per la Pietà?”). Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti e modifiche dovuti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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